Pochi hanno colto il significato più profondo della sostituzione
dell’Imu con una tassa sui servizi (1). Il provvedimento del governo
Letta non rappresenta “soltanto” una misura fiscale regressiva – cioè
che alza le tasse ai più poveri per abbassarle ai più ricchi. È anche e
soprattutto una nuova vittoria del “blocco edilizio”, una formazione
sociale che da 50 anni condiziona la politica economica del nostro paese, condannando l’Italia ad un modello di sviluppo basato sulla rendita immobiliare e sull’immobilismo sociale – a scapito dei redditi dei lavoratori ma anche dello sviluppo industriale.
sociale che da 50 anni condiziona la politica economica del nostro paese, condannando l’Italia ad un modello di sviluppo basato sulla rendita immobiliare e sull’immobilismo sociale – a scapito dei redditi dei lavoratori ma anche dello sviluppo industriale.
Di “blocco edilizio” parlò per la prima volta Valentino Parlato in un
articolo sul manifesto. Si tratta di una formazione sociale, una lobby
potremmo dire, capitanata da palazzinari, grandi costruttori,
proprietari terrieri e colossi immobiliari – in parte spalleggiati dalle
banche cui questi soggetti sono legati a doppio filo – e in grado di
mobilitare quando necessario una moltitudine di piccoli proprietari
della classe media, tramite i propri mezzi di comunicazione (ad esempio i
giornali di proprietà dei grandi costruttori) e i propri referenti
politici.
La prima grande mobilitazione del blocco edilizio avvenne nel 1962
per affossare la legge urbanistica proposta dal ministro democristiano
dei lavori pubblici Fiorentino Sullo, mirata a limitare fortemente la
rendita fondiaria. Oggi il blocco è forte almeno quanto allora,
indebolito dalla crisi delle costruzioni ma ancora più influente
politicamente. Non solo Berlusconi, esso stesso grande costruttore, con i suoi condoni edilizi e
i “piani casa”, ma anche amministrazioni comunali di centro-sinistra
estremamente compiacenti (si pensi alla Roma di Rutelli e Veltroni). Se
negli anni ’60 e ’70 il blocco edilizio era in concorrenza con il
capitale industriale nell’influenzare la politica – e spesso gli
interessi erano contrapposti, ad esempio perché i prezzi alti delle case
provocavano pressioni al rialzo sui salari – oggi il blocco edilizio ha
come unici veri avversari le associazioni della società civile che
lottano in difesa del territorio e qualche isolata amministrazione
locale virtuosa.
Certo il settore delle costruzioni ha un ruolo importante
nell’economia italiana e la crisi lo sta impattando in modo devastante,
con conseguenze drammatiche anche sui lavoratori del comparto. Per cui
si potrebbe pensare che in questa fase aiutare le costruzioni, o almeno
non penalizzarle, sia nell’interesse del paese. Ma sarebbe sbagliato,
oggi, identificare gli interessi del “blocco edilizio” con quelli del
settore delle costruzioni nel suo insieme. Quest’ultimo rappresenta più
che mai un settore complesso, e il blocco edilizio ne è soltanto la
parte più potente e conservatrice, quella che vince tutti gli appalti,
strizzando a volte l’occhio all’illegalità e al crimine organizzato. Lo
Stato dovrebbe intervenire a sostegno del settore non abolendo l’Imu, ma
con una politica industriale che aiuti quelle imprese che innovano
puntando sulla qualità, sulla bioedilizia, sulla riqualificazione
energetica del patrimonio immobiliare.
Detassare la proprietà immobiliare servirà solo a rallentare la
necessaria discesa dei prezzi immobiliari, dando una temporanea e
illusoria boccata d’aria a chi ha costruito troppo durante il boom dei
primi anni duemila e a chi gli ha prestato i soldi. Le costruzioni
italiane dovrebbero invece essere accompagnare dall’intervento pubblico
in un processo di selezione e riconfigurazione, per passare dall’essere il settore del
cemento a quello della riconversione energetica. Solo in questo modo le
costruzioni potrebbero tornare a “trainare” l’economia, contribuendo
alla ripresa e alla crescita dei redditi. Purtroppo tra il dire e il
fare c’è il governo del blocco edilizio.
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