Letta
ha annunciato che il prossimo impegno del governo, se resterà in piedi,
sarà un grande programma di privatizzazioni, cioè di svendita di quote
di aziende statali e di misure per costringere i Comuni a disfarsi del
loro residuo controllo sui beni comuni e sui servizi pubblici locali. Il
tutto, naturalmente, per far quadrare i bilanci, abbattere il debito
pubblico e riportare il deficit (che ormai viaggia verso il 3,5% del
Pil) entro il margine “prescritto”. Tutti obiettivi impossibili: ai
prezzi odierni, la svendita anche di tutti i beni pubblici vendibili (un
grande affare per chi compra) non porterebbe nelle casse statali che un
centinaio di miliardi o poco più; cioè meno di quanto lo Stato pagherà
in un anno tra interessi e rateo di rimborso del debito imposto dal
fiscal compact. E l’anno dopo ci si ritroverà al punto di prima, ma
senza più beni comuni e aziende pubbliche. La realtà è che il debito
pubblico italiano è insostenibile e l’unico modo per farvi fronte è
congelarlo.
Ma per capire dove portano le privatizzazioni già largamente praticate dai precedenti governi di centrosinistra guardate l’Ilva: un gioiello tecnologico (di 50 anni fa) creato dall’industria di Stato e ispirato alla cultura allora imperante del gigantismo industriale; poi svenduto, una ventina di anni fa – a una famiglia già compromessa che aveva fatto i soldi con i rottami di ferro – in ossequio alla cultura delle privatizzazioni messa in auge dagli allora campioni del centrosinistra: Andreatta, Ciampi, Prodi & Co. La motivazione di quel passaggio di mano era che le cattive performance del settore (peraltro in crisi, da allora, in tutta Europa) erano dovute ai condizionamenti della “politica”, ormai insediatasi nel management dell’azienda; e che solo una gestione privata l’avrebbe salvato da quelle interferenze. La validità di quella tesi può essere verificata dal fatto (tra gli altri) che i Riva sono oggi i principali azionisti privati di Alitalia, cioè di quella cordata fallimentare messa su da Berlusconi per gestire in nome dell’italianità della “nostra” compagnia aerea la sua campagna elettorale del 2006: le interferenze della politica funzionano tanto con la proprietà pubblica che con quella privata. In cambio di quell’operazione senza alcun senso economico i Riva si erano però garantiti mano libera nella prosecuzione di una gestione scellerata dell’azienda.
Nonostante due condanne penali in cui il capostipite della dinastia era già incorso. Tra i risultati di quello scambio di favori c’è stata un’autorizzazione integrata ambientale (Aia) confezionata su misura dell’Ilva dalla ministra Prestigiacomo e da un uomo per tutte le stagioni, vero “dominus” del Ministero dell’Ambiente, Corrado Clini.
Così i Riva hanno gestito gli impianti dell’Ilva “a esaurimento”: investendo cioè solo l’indispensabile per tenerli in funzione e fare profitti da imboscare all’estero, fottendosene dell’impatto ambientale, della salute, della sicurezza e della vita di maestranze e cittadinanza; contando sul fatto che gli impianti sarebbero andati a rottamazione più o meno nel momento in cui il mercato globale avrebbe reso insostenibile la gestione di uno stabilimento di quelle dimensioni.
Per questo l’idea di risanarlo e ammodernarlo (che è cosa differente dal mettere in sicurezza maestranze e città fin che continuerà a funzionare) è un po’ peregrina. Non c’era, dietro la gestione Riva, alcuna strategia che non fosse quella di spremere uomini, impianti e territorio fin che fosse possibile. Come non c’è altra strategia dietro la gestione dell’odierno commissario e del suo vice. In più, all’Ilva c’era – ed è rimasta operativa anche dopo la nomina di Bondi – una conduzione criminale del personale e delle lavorazioni, affidata a una struttura parallela e illegale di “fiduciari”: cioè di persone non incluse nell’organico dell’azienda, che comandano in fabbrica al posto dei capi – imponendo quelle operazioni pericolose che sono all’origine dei morti, degli infortuni e di gran parte dell’inquinamento della città – ma che non rispondono mai del loro operato, perché ufficialmente «non esistono»; una struttura che dipendeva direttamente dai Riva e che ora – verosimilmente – risponde al presidente Ferrante: un altro uomo per tutte le stagioni: già Prefetto, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, presidente di Impregilo sotto accusa per i disastri dei rifiuti in Campania e dell’alta velocità nel Mugello.
Sono stato un solo giorno a Taranto, nell’agosto dell’anno scorso, invitato dal Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, e in un giorno solo sono venuto a sapere tutto di quella struttura illegale. Tutti sapevano che c’era e che cos’era, con nomi e cognomi. Ma per mesi e per anni nessuno, a quanto mi consta – né sindacati, né partiti, né amministrazioni locali, né curia, né Regione, né governo, né tantomeno il nuovo presidente, il commissario o il suo vice – ha sentito il bisogno di denunciare una pratica del genere. E’ dovuta intervenire la magistratura, con diciotto anni – verosimilmente – di ritardo, per arrestare la cupola di quell’associazione a delinquere. Il che dà un’idea del livello di compromissione costruito intorno all’intreccio tra “politica”, in senso lato, e “privatizzazioni”. D’altronde l’Ilva ha un dopolavoro – l’Associazione Vaccarella – attraverso cui transitano ingenti finanziamenti gestiti dai sindacati, che non ne hanno mai dato conto; e a Taranto c’è un palazzetto dello sport dell’Ilva, denominato – chissà perché? – PalaFiom. Ve lo immaginate voi un PalaFiom della Fiat di fronte ai cancelli di Pomigliano o di Mirafiori? Evidentemente qualcosa non quadra.
Ora che i Riva hanno fermato per ritorsione tutti gli altri impianti italiani, Letta deve decidere che cosa fare. Ma non può fare niente, perché sia lui che i suoi predecessori si sono legati le mani con leggi e accordi di cui si sono fatti garanti e con cui hanno legato una pietra al collo del paese per mandarlo definitivamente a fondo. Il governo non può ridare l’Ilva ai Riva, per lo meno fino a che non avranno restituito almeno gli otto miliardi che hanno rubato. Non può cercare un compratore estero, perché questi userebbe l’impianto per mettere piede in Italia e poi dismetterlo il più in fretta possibile, come hanno fatto tutti gli altri cosiddetti «investitori esteri», non solo con la Lucchini nel siderurgico; ma con Alcoa, Siemens, Telecom, Alstom, Parmalat e tante altre. Non può nazionalizzare l’Ilva o gli altri stabilimenti dei Riva sotto sequestro perché l’Europa «non lo consente»; e perché “i soldi” per l’esproprio aumenterebbero deficit e debito; e non si può fare.
Ma la nazionalizzazione – dell’Ilva, o del Gruppo Riva, o degli stabilimenti Fiat condannati alla cassa integrazione perpetua, o di qualsiasi altra fabbrica in crisi – è per ora impraticabile anche per chi fosse eventualmente propenso a “passar sopra” a quei vincoli (e per ora nessuno di coloro che hanno voce in capitolo lo è). Perché manca la struttura per gestire aziende del genere. Una volta c’era l’Iri: una robusta struttura pubblica, che era anche una scuola di management di livello internazionale, quali che ne fossero le pecche politiche, che certo non mancavano. Adesso invece c’è solo più Bondi: un arzillo ottuagenario pronto a tutto, che si è lasciato dietro le spalle una intera carriera di aziende scomparse o distrutte: Montedison, Lucchini, Telecom, Ligresti e Parmalat (riempita, quest’ultima, di miliardi con le penali pagate dalle banche che avevano tenuto bordone a Tanzi, per finire subito tra le fauci di un pirata che li ha usati per farsi i fatti propri); più una breve permanenza al governo della spending review e alla formazione della lista Monti, dove, com’è ovvio, non ha combinato niente.
Così, se Landini ha promesso che la Fiom non permetterà più la chiusura di altre fabbriche, anche a costo di promuoverne l’occupazione da parte delle maestranze – e ha fatto bene – resta da definire che cosa fare poi di quelle aziende, che sono ogni giorno di più, una volta che i lavoratori le abbiano occupate: restituirle al padrone che le vuole chiudere? Cercare un nuovo padrone perché a chiuderle sia lui, dopo aver portato via macchinari, brevetti e marchio, come hanno già fatto in tanti? Affidare anche quelle a Bondi? Nazionalizzarle, anche se il management per gestirle non c’è?
In realtà quello che c’è da fare, e subito, è raccogliere e costruire, con un appello al paese, un nuovo management: un tessuto esteso di persone disposte a sostituire i vecchi proprietari – o, eventualmente, a integrare la precedente dirigenza – per mettersi a disposizione di tutte quelle situazioni che invece di accettare la chiusura sono disposte ad affrontare la sfida di una nuova gestione, socializzata e condivisa: non una mera “autogestione” da parte delle maestranze, anche se l’utilizzo della legge Marcora, o di un suo sostituto, potrebbe fornire uno strumento per imboccare una strada del genere. Ma una gestione che, accanto alle maestranze, coinvolga anche le comunità locali, le loro associazioni, le amministrazioni dei comuni e degli altri enti locali del territorio, le università (cioè i docenti e le organizzazioni degli studenti disponibili) la schiera crescente di ex manager messi sul lastrico, l’esercito di coloro che hanno fatto apprendistato di responsabilità gestionali nel terzo settore. E’ l’unico modo per mettere insieme, e mettere alla prova in un confronto serrato con situazioni concrete, una nuova classe dirigente: un passo indispensabile se si vuole esautorare quella attuale. Intanto bisogna mettere all’ordine del giorno espropri e requisizioni. O ci sono altre strade per salvarci dal disastro?
Ma per capire dove portano le privatizzazioni già largamente praticate dai precedenti governi di centrosinistra guardate l’Ilva: un gioiello tecnologico (di 50 anni fa) creato dall’industria di Stato e ispirato alla cultura allora imperante del gigantismo industriale; poi svenduto, una ventina di anni fa – a una famiglia già compromessa che aveva fatto i soldi con i rottami di ferro – in ossequio alla cultura delle privatizzazioni messa in auge dagli allora campioni del centrosinistra: Andreatta, Ciampi, Prodi & Co. La motivazione di quel passaggio di mano era che le cattive performance del settore (peraltro in crisi, da allora, in tutta Europa) erano dovute ai condizionamenti della “politica”, ormai insediatasi nel management dell’azienda; e che solo una gestione privata l’avrebbe salvato da quelle interferenze. La validità di quella tesi può essere verificata dal fatto (tra gli altri) che i Riva sono oggi i principali azionisti privati di Alitalia, cioè di quella cordata fallimentare messa su da Berlusconi per gestire in nome dell’italianità della “nostra” compagnia aerea la sua campagna elettorale del 2006: le interferenze della politica funzionano tanto con la proprietà pubblica che con quella privata. In cambio di quell’operazione senza alcun senso economico i Riva si erano però garantiti mano libera nella prosecuzione di una gestione scellerata dell’azienda.
Nonostante due condanne penali in cui il capostipite della dinastia era già incorso. Tra i risultati di quello scambio di favori c’è stata un’autorizzazione integrata ambientale (Aia) confezionata su misura dell’Ilva dalla ministra Prestigiacomo e da un uomo per tutte le stagioni, vero “dominus” del Ministero dell’Ambiente, Corrado Clini.
Così i Riva hanno gestito gli impianti dell’Ilva “a esaurimento”: investendo cioè solo l’indispensabile per tenerli in funzione e fare profitti da imboscare all’estero, fottendosene dell’impatto ambientale, della salute, della sicurezza e della vita di maestranze e cittadinanza; contando sul fatto che gli impianti sarebbero andati a rottamazione più o meno nel momento in cui il mercato globale avrebbe reso insostenibile la gestione di uno stabilimento di quelle dimensioni.
Per questo l’idea di risanarlo e ammodernarlo (che è cosa differente dal mettere in sicurezza maestranze e città fin che continuerà a funzionare) è un po’ peregrina. Non c’era, dietro la gestione Riva, alcuna strategia che non fosse quella di spremere uomini, impianti e territorio fin che fosse possibile. Come non c’è altra strategia dietro la gestione dell’odierno commissario e del suo vice. In più, all’Ilva c’era – ed è rimasta operativa anche dopo la nomina di Bondi – una conduzione criminale del personale e delle lavorazioni, affidata a una struttura parallela e illegale di “fiduciari”: cioè di persone non incluse nell’organico dell’azienda, che comandano in fabbrica al posto dei capi – imponendo quelle operazioni pericolose che sono all’origine dei morti, degli infortuni e di gran parte dell’inquinamento della città – ma che non rispondono mai del loro operato, perché ufficialmente «non esistono»; una struttura che dipendeva direttamente dai Riva e che ora – verosimilmente – risponde al presidente Ferrante: un altro uomo per tutte le stagioni: già Prefetto, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, presidente di Impregilo sotto accusa per i disastri dei rifiuti in Campania e dell’alta velocità nel Mugello.
Sono stato un solo giorno a Taranto, nell’agosto dell’anno scorso, invitato dal Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, e in un giorno solo sono venuto a sapere tutto di quella struttura illegale. Tutti sapevano che c’era e che cos’era, con nomi e cognomi. Ma per mesi e per anni nessuno, a quanto mi consta – né sindacati, né partiti, né amministrazioni locali, né curia, né Regione, né governo, né tantomeno il nuovo presidente, il commissario o il suo vice – ha sentito il bisogno di denunciare una pratica del genere. E’ dovuta intervenire la magistratura, con diciotto anni – verosimilmente – di ritardo, per arrestare la cupola di quell’associazione a delinquere. Il che dà un’idea del livello di compromissione costruito intorno all’intreccio tra “politica”, in senso lato, e “privatizzazioni”. D’altronde l’Ilva ha un dopolavoro – l’Associazione Vaccarella – attraverso cui transitano ingenti finanziamenti gestiti dai sindacati, che non ne hanno mai dato conto; e a Taranto c’è un palazzetto dello sport dell’Ilva, denominato – chissà perché? – PalaFiom. Ve lo immaginate voi un PalaFiom della Fiat di fronte ai cancelli di Pomigliano o di Mirafiori? Evidentemente qualcosa non quadra.
Ora che i Riva hanno fermato per ritorsione tutti gli altri impianti italiani, Letta deve decidere che cosa fare. Ma non può fare niente, perché sia lui che i suoi predecessori si sono legati le mani con leggi e accordi di cui si sono fatti garanti e con cui hanno legato una pietra al collo del paese per mandarlo definitivamente a fondo. Il governo non può ridare l’Ilva ai Riva, per lo meno fino a che non avranno restituito almeno gli otto miliardi che hanno rubato. Non può cercare un compratore estero, perché questi userebbe l’impianto per mettere piede in Italia e poi dismetterlo il più in fretta possibile, come hanno fatto tutti gli altri cosiddetti «investitori esteri», non solo con la Lucchini nel siderurgico; ma con Alcoa, Siemens, Telecom, Alstom, Parmalat e tante altre. Non può nazionalizzare l’Ilva o gli altri stabilimenti dei Riva sotto sequestro perché l’Europa «non lo consente»; e perché “i soldi” per l’esproprio aumenterebbero deficit e debito; e non si può fare.
Ma la nazionalizzazione – dell’Ilva, o del Gruppo Riva, o degli stabilimenti Fiat condannati alla cassa integrazione perpetua, o di qualsiasi altra fabbrica in crisi – è per ora impraticabile anche per chi fosse eventualmente propenso a “passar sopra” a quei vincoli (e per ora nessuno di coloro che hanno voce in capitolo lo è). Perché manca la struttura per gestire aziende del genere. Una volta c’era l’Iri: una robusta struttura pubblica, che era anche una scuola di management di livello internazionale, quali che ne fossero le pecche politiche, che certo non mancavano. Adesso invece c’è solo più Bondi: un arzillo ottuagenario pronto a tutto, che si è lasciato dietro le spalle una intera carriera di aziende scomparse o distrutte: Montedison, Lucchini, Telecom, Ligresti e Parmalat (riempita, quest’ultima, di miliardi con le penali pagate dalle banche che avevano tenuto bordone a Tanzi, per finire subito tra le fauci di un pirata che li ha usati per farsi i fatti propri); più una breve permanenza al governo della spending review e alla formazione della lista Monti, dove, com’è ovvio, non ha combinato niente.
Così, se Landini ha promesso che la Fiom non permetterà più la chiusura di altre fabbriche, anche a costo di promuoverne l’occupazione da parte delle maestranze – e ha fatto bene – resta da definire che cosa fare poi di quelle aziende, che sono ogni giorno di più, una volta che i lavoratori le abbiano occupate: restituirle al padrone che le vuole chiudere? Cercare un nuovo padrone perché a chiuderle sia lui, dopo aver portato via macchinari, brevetti e marchio, come hanno già fatto in tanti? Affidare anche quelle a Bondi? Nazionalizzarle, anche se il management per gestirle non c’è?
In realtà quello che c’è da fare, e subito, è raccogliere e costruire, con un appello al paese, un nuovo management: un tessuto esteso di persone disposte a sostituire i vecchi proprietari – o, eventualmente, a integrare la precedente dirigenza – per mettersi a disposizione di tutte quelle situazioni che invece di accettare la chiusura sono disposte ad affrontare la sfida di una nuova gestione, socializzata e condivisa: non una mera “autogestione” da parte delle maestranze, anche se l’utilizzo della legge Marcora, o di un suo sostituto, potrebbe fornire uno strumento per imboccare una strada del genere. Ma una gestione che, accanto alle maestranze, coinvolga anche le comunità locali, le loro associazioni, le amministrazioni dei comuni e degli altri enti locali del territorio, le università (cioè i docenti e le organizzazioni degli studenti disponibili) la schiera crescente di ex manager messi sul lastrico, l’esercito di coloro che hanno fatto apprendistato di responsabilità gestionali nel terzo settore. E’ l’unico modo per mettere insieme, e mettere alla prova in un confronto serrato con situazioni concrete, una nuova classe dirigente: un passo indispensabile se si vuole esautorare quella attuale. Intanto bisogna mettere all’ordine del giorno espropri e requisizioni. O ci sono altre strade per salvarci dal disastro?
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