di Francesco Garibaldo – sbilanciamoci.info -
Gli attuali gruppi dirigenti, compresi i governi Monti e
Letta, trattano la liquidazione sociale di un’intera generazione come un
problema d’incentivi alle imprese per convincerle ad assumerne. Un modo
per nascondere il fatto cruciale di questa disoccupazione, il suo
carattere strutturale e intrinseco al modello neoliberista
Molti di noi, negli ultimi anni, hanno scritto e riscritto proposte e
piani per combattere la disoccupazione di massa, la povertà e
l’ingiustizia sociale. Queste idee, pur diverse tra di loro, e talvolta
anche tra loro contradditorie su specifici punti, hanno contribuito a
tenere aperta l’idea che un altro mondo è possibile e che non vi è
nessuna legge naturale che ci abbia portati alla disastrosa situazione
che stiamo vivendo. Questo solo fatto rende tali iniziative meritorie,
ma è venuto il momento di prendere atto che continuando così si predica
al vento e si diventa “pasticcieri dell’avvenire”. Gli ultimi dieci anni
non sono passati invano e quindi non si tratta solo di correre il
rischio dell’inutilità ma di un comportamento colpevole. Si è affermata
infatti una solida coalizione tra un blocco sociale, costituito dalla
sezione globalizzata del capitalismo europeo e dalla finanza, ed uno
politico, formato da un nuovo ceto politico e tecnocratico e dalle
istituzioni tecnocratiche europee e nazionali – quali la Bce e la
Commissione europea – che sta sistematicamente smantellando la
democrazia, lo stato sociale e i diritti dei lavoratori.
Come penso tutti voi, non ho nulla da ritrattare delle proposte fatte [1];
il punto è che esse non hanno alcun “mercato politico” e scarsamente un
“mercato sociale” su cui circolare. Oggi nessuna forza politica di
rilievo le prende in considerazione e spesso le stesse rappresentanze
sociali sono sorde o restie su questi temi; si pensi agli accordi
sindacali sulla detassazione delle ore di straordinario.
A tale proposito devo confessare che mi ha molto colpito l’ultimo
libro di Streeck, non per il merito delle proposte – molte pienamente
condivisibili, anche se non tutte [2] –
né per il quadro analitico tracciato – cui molti di noi, nella
discussione europea tra gli intellettuali, hanno avuto modo di
contribuire. Mi ha colpito il metodo; il ritorno dell’analisi del
capitalismo nella linea di Marx. Non un capitalismo astratto e
metastorico ma questo capitalismo, storicamente, e forse anche
geo-politicamente, determinato e quindi con caratteristiche nuove e
specifiche; “un capitalismo scatenato” (Glyn [3]),
diretto da capitalisti, in carne e ossa, che, con l’aiuto di un nuovo
ceto di tecnocrati, intellettuali e politici, hanno un progetto sociale,
politico e culturale, allo stesso tempo; un progetto che perseguono con
radicalità e tenacia, avendo già scelto di “secedere dalla democrazia”. Lo dico nel senso di Urbinati [4],
la secessione cioè dall’idea che i rapporti economici sono rapporti
sociali e come tali sono subordinati alle decisioni democratiche; la
sfera economica, cioè gli interessi capitalistici e finanziari, si
autonomizza, diventa una sfera riservata a un élite tecnocratica e
politica – con ruoli che si scambiano continuamente – e acquista una
primazia su tutte le altre sfere.
Torniamo dunque al tema di questa sessione. Se vogliamo realizzare
quanto qui ci proponiamo, in questa situazione, allora non sono
sufficienti, anche se necessari, elenchi di proposte, con le relative
indicazioni di come trovare le risorse per realizzarle.
Bisogna prima di
tutto individuare le condizioni, cioè avere un progetto antagonista –
la parola non è scelta incautamente – che possano incrinare e rimettere
in discussione il progetto politico capitalista.
Le condizioni sono tante quante le diverse facce, economiche,
sociali, politiche e culturali di quel progetto ma una tra di esse ha –
si sarebbe detto un tempo – una funzione architettonica; è cioè la
chiave di volta di tutta la struttura: il tema dell’eguaglianza.
L’idea base che ha conquistato, certamente sino alla grande crisi di
questi ultimi anni, le menti e i cuori non solo delle nuove élite, ma
anche di larghe masse è molto semplice. Il capitalismo crea
diseguaglianze, ma, grazie a esse, si creano gli incentivi ai capaci per
affrontare il rischio; si selezionano così i più capaci ed essi
producono ricchezza che lentamente, ma costantemente, viene
redistribuita verso il basso in modo tale che la base della scala
sociale si sposta verso l’alto. Non bisogna, quindi, guardare alle
differenze relative ma all’innalzamento complessivo della scala sociale;
la diseguaglianza è quindi un bene e la critica nasce dall’invidia.
Questa idea, in concreto, implica che il capitalismo per funzionare
in modo efficace ha bisogno della libertà dei capitalisti. Tale libertà
richiede, oggi, lo smantellamento di quanto costituito nel corso dei “trenta gloriosi”;
ciò che è importante però non è tanto il singolo provvedimento, ma la
liberazione dei capitalisti da ogni controllo operato dalla società per
mezzo del potere dello Stato, il resto, come poi è realmente accaduto,
seguirà. Lo Stato può essere anche molto forte, anche dispotico,
illiberale, censorio, ecc.; ciò che non deve fare è pensare di regolare
le attività della sfera economica secondo criteri extraeconomici, cioè
non capitalisti; non può cioè seguire le regole della democrazia. Questo
progetto è già stato largamente realizzato in Europa. Come contrastarlo
quindi?
È certamente necessaria una battaglia ideologica in favore della
natura sociale di tutte le relazioni, comprese quelle economiche, e
sull’utilità di sottomettere tutti gli aspetti della vita sociale alle
regole democratiche; gli argomenti non mancano, ma la difficoltà nasce
dal fatto che nel frattempo una larga parte delle reti tradizionali di
rappresentanza e di collegamenti nella sfera sociale sono stati
indeboliti e smantellati. La stessa produzione culturale e scientifica è
sempre di più controllata, anche ideologicamente, dalla cultura
capitalista.
Il punto veramente debole e il progressivo indebolimento, quando non la frantumazione, di ogni countervailing power (Dahl) [5].
I contropoteri, di cui parlava Dahl, non sono genericamente le
opinioni pubbliche ma veri e propri poteri organizzati e radicati nella
società, poteri che sono autonomi sia dal potere politico sia da quello
economico e finanziario; in primo luogo tra questi, la rappresentanza
sociale del lavoro, cioè, quando la incarnano, i sindacati. Non è
inutile rammentare a ciascuno di noi che il processo di progressiva
disarticolazione di cui parliamo ha avuto come centro e come mossa
iniziale lo smantellamento del potere sociale dei sindacati.
Il punto di partenza nostro quindi non può che essere la difesa di
quello che esiste e la costruzione paziente di una rete sempre più
estesa e articolata di forme di aggregazione sociale costruite attorno a
progetti di disarticolazione e rovesciamento del quadro esistente.
Il primo progetto è ristabilire la priorità sociale della piena
occupazione; non è solo un esercizio tecnico su come ottenerla. Al
contrario in primo luogo essa va rivendicata a prescindere, come
obiettivo politico di governo di una società democratica. Gli attuali
gruppi dirigenti, compresi i governi Monti e Letta, trattano la
liquidazione sociale, nel senso pieno della parola, di un’intera
generazione come un problema d’incentivi alle imprese per convincerle ad
assumerne, a qualunque condizione, almeno un po’; una frazione risibile
del totale. Non è questo il punto, così si nasconde il fatto cruciale
di questa disoccupazione, il suo carattere strutturale, intrinseco cioè a
questo modello.
L’occupazione dei giovani deve essere costruita dal pieno utilizzo di
tutte le loro capacità, anzi dal pieno sviluppo di tutte le loro
capacità, il che significa ridisegnare tutta la struttura sociale e
istituzionale per garantire quest’obiettivo. Un occupazione che abbia
queste caratteristiche non può essere fondata sul sottosalario e la
precarietà.
L’attività economica e produttiva deve essere costruita a partire
dalle grandi domande sociali inevase e non dalla stanca e insostenibile
riproposizione del modello post-bellico – carbone, acciaio, petrolio –
in un inseguimento neo mercantile senza fine tra i diversi blocchi
geopolitici. Le misure tecniche, come sempre è successo, seguiranno, se
questa è la priorità. Molti di noi hanno già indicato varie possibili
soluzioni.
Il pieno utilizzo e sviluppo delle loro capacità è incompatibile con
una struttura produttiva fondata sull’esercizio di un potere arbitrario
sulle finalità e le modalità del lavoro. Come dice Nussbaum, criticando i
limiti della critica all’ingiustizia, da parte del pensiero liberale
più avanzato, come quello di Rawls:
“Quindi, è improbabile che la ricerca condotta dai liberali
pervenga a una critica altrettanto radicale [come quella di Marx, nda]
sui rapporti di produzione. Eppure, come dice Marx, sono proprio quei
rapporti a costituire l’ostacolo principale alla possibilità del lavoratore di realizzare se stesso come essere umano (…). [I liberali] non
esaminano gli impedimenti a una completa realizzazione personale che
derivano dalla struttura dei rapporti quotidiani tra il proletariato e
gli altri soggetti e non si chiedono se le condizioni di vita del
proletario siano tali da permettergli di sfruttare le risorse a sua
disposizione in un modo autenticamente umano”[6].
Da questa riflessione quindi si apre un problema in primo luogo per
gli stessi sindacati. La crisi democratica riguarda, infatti, tutte le
istituzioni, loro compresi, e inizia quando si interroga innanzitutto
sulla quantità di beni disponibili e non si affrontano le reali
condizioni del soggetto e delle sue possibilità di operare scelte
libere. Se, infatti, il problema del lavoro viene ridotto a come
garantire la sopravvivenza e un po’ di consumi, allora si corre il
rischio sia della rottura neocorporativa tra un nucleo sempre più
risotto di garantiti e gli altri, sia della disponibilità a cedere ogni
diritto pur di sopravvivere: primum vivere si dice, dimenticando che così facendo:propter vitam vivendi perdere causas.
Siamo ben oltre Rawls. La versione utilitaristica dominante non vede
nemmeno l’esistenza stessa dell’ingiustizia, visto che considera gli
individui come centri di desiderio perfettamente autonomi e consapevoli.
Per gli utilitaristi ciò che guida gli esseri umani può avere svariate
forme, ma nella pratica tutte le motivazioni umane possono essere
ricondotte a unità e misurate su una scala unica: piacere, edonismo,
eccetera. Il conflitto, quando è ammesso, è solo distributivo. La lotta
per la democrazia e la libertà cioè la possibilità concreta per tutti di
decidere le priorità di tutte le sfere della società in cui si vive, a
partire dai luoghi di lavoro, è quindi la seconda gamba di una critica
verso l’ordine dominante.
Reinventare il lavoro non è possibile senza partire da questa tavola
dei valori, da queste finalità generali. È il compito di un’intera
generazione e non vi sono scorciatoie.
[1] Rimando, per quanto mi concerne, ai due contributi recenti: “Recuperare imprese, creare lavoro” sul sito di Sbilanciamoci – http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/La-rotta-d-Italia-16276, e “Creare Occupazione” sulla rivista ERE dell’IRES CGIL dell’Emilia Romagna, n. 14, Luglio 2013, pp. 66-70
[2] Ad
esempio su come affrontare la crisi dell’euro; su tale argomento
Bellofiore ed io abbiamo chiarito la nostra posizione con un articolo in
uscita sul numero 181 di Inchiesta.
[3] Glyn, A. (2006). Capitalism Unleashed. Oxford: Oxford University Press
[4] Urbinati, N. – La mutazione antiegualitaria – Laterza, 2013
[5] Dahl, R. A. – Sulla Democrazia. Laterza, Bari, 2000
[6] (Capacità personale e democrazia sociale. Un antologia di scritti a cura di Zanetti G, Reggio Emilia, Diabasis, 2003)
*Testo dell’intervento di Francesco Garibaldo nella sessione
dedicata a “Lavoro, welfare e conoscenza: come combattere le
diseguaglianze sociali” del forum di Sbilanciamoci!, tenutosi a Roma dal
6 all’8 settembre.
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