Un governo inetto e senza idee ha rispolverato nelle scorse settimane
la geniale idea di privatizzare i beni pubblici. Intanto non sappiamo
cosa effettivamente si vorrebbe vendere e Letta non lo dice a noi, ma
andrà a raccontarlo in giro per il mondo. Evidentemente nessuno ha
apparentemente pensato che cedere un rilevante volume di immobili in un
mercato estremamente depresso significherebbe andare incontro ad un
fallimento totale. Se invece si trattasse di esitare delle quote di
imprese ancora a controllo pubblico, vorrebbe dire che si è cancellata
del tutto la memoria degli eventi passati, come è ormai del resto
normale nel nostro paese. Da questo punto di vista vogliamo pensare, per
essere benevoli, che l’annuncio sia stato forse imposto dalla troika ad
una governo sempre più commissariato, per placare un po’ i burocrati di
Bruxelles e i funzionari della Bundesbank.
L’Italia, negli anni novanta, ha portato avanti la più grande
dismissione di beni pubblici dell’intera Europa. La vendita si è
rivelata uno dei più grandi fallimenti politici del dopoguerra e le sue
conseguenze le stiamo sentendo ancora oggi.
Essa ha tra l’altro rappresentato, insieme agli accordi del 1992,
governo-sindacati-industria, sulla concertazione e alla legge Treu del
1997 sulla flessibilità, il capitolo iniziale di un crollo progressivo
del nostro complesso di grandi imprese e il punto di avvio di una crisi
profonda del nostro sistema industriale, che da allora non si è più
ripreso.
Ricordiamo così, tra le altre, le vicende incredibili dell’Ilva e a
che cosa essa si è ridotta oggi, quelle dell’Alitalia, vicina
all’insolvenza, di Autostrade, da cui i Benetton traggono molte risorse
spremendo gli automobilisti quasi a volontà, quelle infine della stessa
Telecom Italia, ora ceduta per pochi soldi alla spagnola Telefonica.
In questi mesi gli annunci di cessione a società estere di imprese
nazionali sono ormai diventati cronaca quotidiana. Il capitale straniero
punta alle imprese che possono essere profittevolmente integrate nelle
loro reti mondiali o, comunque, ai settori nei quali il nostro paese ha
ancora (per quanto?) qualcosa da dire, come l’agroalimentare o il
sistema moda.
Nel primo caso si spartiscono il bottino soprattutto gli spagnoli
(tra acquisizioni vecchie e nuove ricordiamo Riso Scotti, Fiorucci
Salumi, Bertolli, Carapelli, Olio Sasso) e i francesi (con Parmalat in
particolare, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Orzo Bimbo), mentre i
cinesi si affacciano nel Chianti.
In quello della moda sono invece i transalpini a prevalere (Loro
Piana, Bulgari, Fendi, Gucci, Pucci, Bottega Veneta, Brioni, ecc).;
anche in questo caso si stanno affacciando i cinesi con i cantieri
Ferretti. E la storia ha cominciato ora a svolgersi persino nel calcio,
con la Roma e l’Inter in mani lontane.
Se veniamo al settore specifico delle telecomunicazioni, tutti i
principali operatori presenti sul mercato italiano (Telecom Italia, ora
spagnola,Vodafone, britannica,Wind, russo-egiziana, 3 italia, cinese)
sono ora stranieri.
Si potrebbe affermare che in delle economie aperte è normale che
delle aziende siano possedute dal capitale di altri paesi; quello che
appare meno normale è che invece il bottino all’estero delle imprese
italiane sia di recente davvero magro. Ricordo, per marcare quanto le
cose siano cambiate, che alcuni decenni fa i francesi si erano allarmati
molto dell’invasione che allora sembrava in atto nel paese da parte del
capitale italiano.
Il problema è che nessun imprenditore italiano ha i mezzi e/o la
voglia per intervenire in Telecom. Nel frattempo lo stesso problema si
pone per Alitalia, per Pirelli, per l’Ilva e per molte altre realtà. Nel
settore bancario sarebbero necessari migliaia di miliardi per
ricapitalizzare gli istituti in difficoltà, da Monte dei Paschi, a banca
delle Marche, a BPM, a banca Carige. Ma nessuno sa dove si potranno
prendere i soldi e intanto il governo si occupa del finanziamento ai
partiti e se Berlusconi deve o no pagare l’Imu.
Per altro verso appare grottesco che ora gli stessi partiti assedino
il governo, con tutta la demagogia e la faccia tosta di cui sono capaci,
chiedendo ad alta voce sempre al povero Letta di dare conto delle
cessioni Telecom e Alitalia, come se si trattasse di fulmini a ciel
sereno di cui non si capisce la ragione. Quelli che strillano
naturalmente hanno almeno altrettante colpe di chi cerca invece di
nascondersi.
Merita comunque di ricordare brevemente le esemplari vicende di questa impresa.
Telecom Italia nasce nel 1994 dalla fusione di cinque diverse società operanti nel settore.
Nel 1997 si procede, sotto l’impulso di Prodi, allora presidente del
consiglio, alla privatizzazione, azione che, mal concepita e mal
gestita, sarà la prima di una serie di disavventure.
Telecom passa sotto il controllo precario di un gruppo di soci
importanti, guidato dagli Agnelli, che mettono però, come al solito,
molti pochi soldi nell’impresa.
A tale cordata molto instabile se ne sostituisce presto un’altra,
guidata da Roberto Colaninno e da altri imprenditori piccoli e medi del
nord, mentre da parte governativa si celebra il loro arrivo, che avrebbe
dovuto portare una soffiata d’aria nuova nelle acque stagnati del
capitalismo italiano. L’azienda sarà pagata moltissimo, soprattutto
facendo debiti, naturalmente tutti accollati alle fine al gruppo.
Ma i capitani coraggiosi non ce la faranno a gestire l’enorme
indebitamento e nel 2001 passano il testimone ad un altro geniale
imprenditore, Tronchetti Provera, con sullo sfondo il sostegno di Enrico
Cuccia, le cui grandi imprese finanziarie stanno finalmente dando in
questi ultimi anni i loro frutti migliori. L’imprenditore, come al
solito, paga la Telecom ad un prezzo esorbitante e la riempie di altri
debiti, ma, ahimè, anche lui non ce la fa, mentre nel frattempo per
sostenere il gioco aveva dovuto anche vendere pezzi della Pirelli.
Interviene un nuovo governo Prodi che, nel voler salvare l’italianità
del gruppo, si preoccupa anche molto, però, di salvare anche lo stesso
Tronchetti Povera. Così si fa di nuovo viva Mediobanca, che, nel 2007,
forma una nuova cordata con dentro le due grandi banche cosiddette di
“sistema”, nonché Generali e infine Telefonica come partner industriale.
Incidentalmente, il sistema bancario italiano, in tutta la vicenda, ha
mantenuto un comportamento esemplare, non negando i soldi, e tanti, a
nessuno degli attori in commedia.
I nuovi soci prendono la quota di controllo di Telco, che possiede a
sua volta il 22,4% delle azioni Telecom, il cui valore nel frattempo
crolla a livelli infimi. Arriva un nuovo gruppo dirigente e Franco
Bernabè diventa amministratore delegato. Nei sette anni successivi non
succede nulla; mentre il mondo delle telecomunicazioni e l’economia
europea sono soggetti a grandi turbolenze, Bernabè non decide
sostanzialmente alcunché. A suo discarico si deve considerare che
nessuno vuole mettere soldi in una società che avrebbe un disperato
bisogno di capitale fresco e che intorno a lui nuotano molti squali, tra
i quali lo stesso Berlusconi, che per un momento sembra voler
impadronirsi della presa, per poi cambiare idea, visti probabilmente
anche i problemi al contorno.
L’azienda è oggi in un angolo in un mercato ultracompetitivo (in
Europa sono decine le società che si affannano nel settore), con una
rete vetusta, con un mercato di riferimento, quello italiano, in grande
difficoltà e con il solo punto forte rappresentato dall’America Latina.
Ecco che ora Telefonica, visto il momento favorevole, rompe gli indugi e si offre di comprare il tutto versando solo un obolo.
Si pongono in ogni caso dei problemi molto rilevanti.
Intanto la Telecom dovrebbe fare grandi investimenti nella banda
larga, ma la società è gravata contemporaneamente da un indebitamento
enorme (66 miliardi di euro, se non ricordiamo male) ed avrebbe bisogno
di un grande aumento di capitale. Pensiamo che Telefonica si guarderà
bene dal portare avanti le due pratiche; nei prossimi anni avrà tanti
problemi da affrontare, mentre il nostro paese continuerà a perdere
terreno sia rispetto a quelli industrializzati ed a quelli emergenti
(qualcuno ha calcolato che una diffusione ampia della banda larga
potrebbe portare ad un aumento di un punto nel pil annuo del nostro
paese) e, d’altro canto, è giusto che una infrastruttura di base del
paese venga abbandonata al capitale estero e per giunta senza alcun
vincolo?
Un’altra questione riguarda Tim. La società di telefonia mobile è
diventata un protagonista importante della scena economia brasiliana,
che anzi contribuisce a sostenere i bilanci della capogruppo; ma
Telefonica è già oggi il numero uno del settore nel paese sudamericano,
mentre Tim è il numero due. L’antitrust locale non gradirà molto questo
fatto e obbligherà i nuovi padroni a disporre in tutto o in parte della
nuova preda; allora Telecom Italia diventerà come impresa molto meno
appetibile.
Naturalmente la questione più grande rimanda al governo e agli
imprenditori nazionali; di fronte ai problemi veri ambedue i
protagonisti rimangono inerti per quanto riguarda le competenze
rispettive. Ma almeno per gli imprenditori c’è, del resto, un precedente
illustre. Durante la crisi degli anni trenta Mussolini voleva
praticamente regalare la telefonia agli Agnelli, ma i grandi
imprenditori, con lungimiranza, rifiutarono. Il settore era troppo nuovo
e i rischi rilevanti.
Ora avanti con l’Alitalia. Siamo sicuri che i capitani coraggiosi
della nostra penisola si faranno avanti entro pochi giorni per mettere
tutti i soldi necessari e tutte le loro vaste competenze per rilanciare
la nostra magnifica compagnia di bandiera.
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