Allora, pare proprio che in un paese
fiaccato dall’evasione, dalla corruzione, dall’incompetenza,
dall’infiltrazione della criminalità organizzata in ogni settore della
società e dalle contiguità e correità con larghi strati dell’economia,
della finanza, della pubblica amministrazione della politica, il vero
cancro italiano invece sia la magistratura, l’uso politico della
giustizia, i giudici rossi, e della loro ossessione perversa di
applicare le leggi, inutili ostacoli alla libera iniziativa,
all’imprenditorialità, alla concorrenza e allo sviluppo più
profittevoli.
Deve essere stata così persuasiva questa
convinzione corrente che ieri nel corso delle manifestazioni indette
dagli operai “messi in libertà” – adesso si chiama così l’infamia
cacciata di 1400 lavoratori da parte della famiglia Riva
– l’abbiamo sentito dire da qualche neo-liberato, che si lamentava di
pagare di persona la decisione del tribunale di sequestrare i beni
della criminale dinastia dell’acciaio, accumulati sulla pelle e la vita
dei dipendenti e dei cittadini.
Eh certo, un’acciaieria non è un salotto, ha detto qualcuno. Fumi
e polveri sono un effetto “naturale”, lavorarci dentro è faticoso e
pericoloso eppure è stato il sogno di varie generazioni in Puglia
e altrove: all’Italsider si è forgiata una classe operaia, il salario
ha permesso a molte migliaia di persone di mandare i figli
all’Università, di comprare l’automobile e la casa. Ma da tempo si sa
che il maggiore benessere è stato pagato da un crescente inquinamento,
dalla comparsa di malattie, alcune mortali. E si sa altrettanto bene che
è possibile produrre acciaio con un minore inquinamento e con minori
danni per la salute, abbattendo una parte dei fumi, delle polveri e
delle sostanze nocive. Ma si tratta di misure che comportano un
incremento dei costi di produzione, minori profitti per l’imprenditore,
sia esso un padrone pubblico, come lo Stato ai tempi dell’Italsider, sia
esso un padrone privato come dopo la vendita dell’Italsider trasformata
in Ilva.
Così è diventata più sofisticata la
tecnica del ricatto come sistema di governo delle relazioni industriali e
della politica: davanti al pericolo della perdita del posto di lavoro
si è formata un’alleanza aberrante fra lavoratori inquinati, popolo
inquinato e imprenditori inquinatori, con l’altrettanto innaturale
connivenza degli amministratori e dei rappresentati locali e di governi
che dal 1961 in avanti avrebbero dovuto scegliere una migliore
localizzazione dell’impianto, una differente pianificazione dei
quartieri residenziali. Ma che, soprattutto, avrebbero dovuto imporre
agli imprenditori, prima pubblici e poi privati, i miglioramenti di
processo, esercitare le attività di sorveglianza, il pagamento delle
bonifiche e del risanamento, e obbligare al rispetto di norme e leggi,
quelle che oggi – tardivamente e contro tutti – cercano di applicare i
tribunali, ridotti alla chiusura di stalle tossiche dopo che anche
l’ultimo bove è scappato o è morto avvelenato.
Mentre la famiglia Riva svaligiava
come un ladro poco gentiluomo la cassaforte dell’Ilva trasferendone le
risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie, nominava
Bondi Ad, lo stesso che il governo poi nomina commissario, mettendo
patrimonio societario e famigliare al riparo dalle spese di risarcimenti
e bonifiche.
Ancora nessuno sa con certezza cosa si celi sotto l’Acna, che cosa sotto Bagnoli
o sotto l’Enichem di Manfredonia, quali tremendi cimiteri ambientali
stiano contaminando il bel paese e continueranno a farlo per anni. Ma
possiamo immaginare che se l’Ilva venisse smantellata o de localizzata
secondo la pratica attuale del “prendi le macchine e scappa” si
scoprirebbe quale irrecuperabile discarica venefica si nasconda nelle
viscere di Taranto,
redenta preventivamente da leggi ad aziendam, dalla credulona
indulgenza con la quale sono state accolte le analisi che vantavano
risultati brillanti nella riduzione di inquinamento e perfino di
malattie, attribuiti all’Aia, ed effetto invece del delle produzioni,
proprio come succede per la diminuzione delle morti “bianche”.
Mica penserete quindi che la guerra mossa
alla Costituzione non si svolga anche su questo campo di battaglia? Che
non intenda dichiarare ufficialmente che, insieme alla sovranità dello
Stato, al ruolo del Parlamento e della rappresentanza, alla limitazione
ragionevole dei poteri presidenziali, è obbligatorio concludere il
tempo dei diritti sancendo la contrapposizione dei due fondamentali:
quello al lavoro e quello alla salute? E che questo non voglia
consolidare il principio che garanzie, prerogative conquistate e diritti costano
e che la necessità nutrita e alimentata ad arte, ne giustifica la
doverosa e ragionevole rinuncia? E che questa abdicazione si deve
accompagnare all’estensione della precarietà, caposaldo della “loro”
crescita anche alla giustizia, alle leggi, alle regole per ratificare
l’opportunità e la legittimità delle licenze, dei condoni,
dell’”indulgenza”, degli scudi, delle semplificazioni, degli
snellimenti, fino all’illegalità, come indispensabile e inevitabile
motore di sviluppo e di prosperità?
Una volta il sangue che scorreva
imbrattava campi rigogliosi e battaglie cruente si svolgevano sotto
sereni e indifferenti cieli azzurri. Questa guerra che è mossa contro
popoli, cittadinanza e democrazia si consuma sotto cieli che non sono
nemmeno più blu.
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