venerdì 13 settembre 2013

L’Euro e gli economisti-profeti, Pubblicato da Ars Longa in http://irradiazioni.wordpress.com

Un feroce – quanto silenzioso – dibattito attraversa da molti anni il concetto di scienza. Il punto è la distinzione tra ciò che deve legittimamente definirsi scienza e ciò che non ha questo diritto. Nel mondo anglosassone si è affermata la distinzione tra “hard science” e “soft science”. Non è una distinzione che trova tutti d’accordo ma si è andata oramai affermando, quasi fosse un armistizio. Questo dibattito nasce dal fatto che alcune discipline negli anni hanno tentato di accreditarsi come “scienze”. Una “scienza dura” è comunemente quella che si basa su dati sperimentali. Dati che sono quantificabili e ripetibili da altri soggetti secondo il metodo scientifico. Ciò produce accuratezza, verificabilità e oggettività. Ovviamente una “scienza dura” così definita è altamente “desiderabile”. Ossia: una scienza che fornisce risultati oggettivi raccoglie più finanziamenti. In un mondo della ricerca basato sul denaro pubblico e privato essere dei cultori di una “hard science” ha indubbi vantaggi.
In questo quadro l’economia – sarebbe meglio dire gli economisti – ha da lungo tempo iniziato la sua scalata all’ambita etichetta di “hard science”. Il primo successo si ebbe nel 1969 con l’istituzione del “Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel”. Successo perché Nobel non l’aveva né pensato né istituito. Appare ovvio che attribuire un premio del genere (che sfrutta cinicamente il nome di Nobel) significa proiettare l’economia nel pantheon delle “hard science”. Ciononostante soltanto un negatore della realtà o un imbecille potrebbe sostenere con successo che l’economia abbia la capacità di produrre accuratezza, verificabilità e oggettività. L’economia odierna si è travestita con larga abbondanza di matematica e si è dedicata alla produzione di modelli. Lo scopo principale è quello di simulare (e dare ad intendere) che l’economia abbia una capacità predittiva. Che sia cioè una disciplina in grado di predire esattamente il futuro in determinate condizioni. Non credo sia necessario sostenere che ciò non è. Nessun economista ha previsto con precisione l’avverarsi di una crisi, nessun economista ha elaborato una ricetta infallibile per uscirne. Ed è questo il punto. Oggi l’economia ci fornisce modelli che dicono tutto e il contrario di tutto dimostrandosi completamente lontana dalla “hard science” che vorrebbe dimostrare di essere. Si potrebbe anche aggiungere che questi modelli poi vanno a pescare contributi in altre discipline. Vi faccio l’esempio di Daniel Kahneman, premio “Nobel” per l’economia nel 2002. Il premio gli fu attribuito con questa motivazione: “per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”. Perché Kahneman è uno psicologo e non un economista. Ma una delle frontiere dell’economia è quella di capire come noi ci comportiamo quando dobbiamo fare delle scelte economicamente rilevanti. Nel 1979, quando apparve sulla rivista Econometrica il contributo di Kahneman sulle decisioni in condizioni di incertezza, si aprì una nuova prateria da esplorare. Non che fosse qualcosa di totalmente inesplorato, l’antropologa Mary Douglas aveva elaborato una teoria culturale del rischio cui Kahneman alla fin fine è largamente debitore. Dunque l’economia – che è molto interessata a dimostrare di essere predittiva – attinge ampiamente ad altre discipline come la psicologia e l’antropologia. So perfettamente che è stato detto di recente da un econometrista nostrano  “che mestiere fanno i sociologi, ci servono i sociologi?”, Kahneman e Douglas danno la risposta ad una domanda che voleva essere retorica e che in realtà è soltanto una affermazione idiota.
Per accreditarsi come “hard science” l’economia non solo pesca tra le altre discipline ma si avvita su sé stessa. Credo abbiate notato anche voi che, all’interno delle discussioni (o forse farei meglio a definirle risse) tra economisti vada di moda rifarsi al sistema del sillogismo retorico della “petitio principis”, ossia a quel sillogismo che vorrebbe dimostrare la verità di una asserzione grazie al fatto che una indiscussa autorità l’ha affermata. Perciò vi ritrovate delle perle del tipo: questa tesi “non è mia ma di alcune decine di Nobel”. Ora vi inviterei a scorrere l’elenco dei premi “Nobel” (che non sono Nobel, come già detto) per l’economia e domandarvi se le teorie di Milton Friedman (premiato nel 1976) abbiano qualcosa da spartire con la visione di Paul Krugman (premio 2008) o se Amartya Sen (premio 1998) abbia una qualche parentela di pensiero con von Hayek (premio 1974). Giusto per citare casi eclatanti e nomi noti. Strana scienza dunque dove, volendo, si possono prendere come numi tutelari esponenti che dicono cose che altri numi tutelari negano.
Se l’economia non è la “hard science” che vorrebbe essere rimane il terribile problema della diffusa autorevolezza dell’economia presso i media tradizionali )televisione, radio, stampa) e i “new media” (web). Ossia: perché i giornalisti e i loro omologhi su altri strumenti di comunicazione sbavano inseguendo l’economista Pinco Pallo che ci dice che è meglio stare nell’Euro e l’economista Pinco Pallino che ci dice che dobbiamo uscirne? Per la stessa, identica, ragione per la quale sbavano correndo dietro allo storico che critica il valore della Resistenza e quello che la afferma, o al dietologo che sostiene i benefici effetti della patata americana sul metabolismo e quello che li nega. Il giornalista fa il suo mestiere e vuole che ci siano sempre due campane a suonare. Ma, proprio perché in economia è agevole trovare sempre due campane, l’economia non è né una “hard science” né un sistema predittivo efficace.
Ma allora perché stiamo correndo dietro gli economisti con molta più lena di quanto non corriamo dietro agli astrologi? Mi direte: “perché c’è una crisi e abbiamo bisogno di esperti che ci illuminino su questa crisi”. Una risposta ragionevole ma, purtroppo, basata su un apparente buon senso. Il fatto che io sia in crisi non giustifica ad esempio, che mi rivolga al Divino Otelma per avere lumi sul mio futuro.
A mio avviso la rincorsa all’economista-mago si inserisce in un fenomeno collettivo più ampio. Alla fine degli anni Cinquanta Norman Rufus Cohn pubblicò un libro importante nel quale enunciava una tesi di grande valore. Cohn constatava che le crisi economiche, sociali e politiche del mondo occidentale hanno quasi sempre innescato uno status mentale apocalittico e finalistico. Secondo Cohn i grandi traumi violenti e le grandi crisi economiche generano una maggioranza di “esclusi” respinti ai margini dell’onda di cambiamento. Questi “esclusi” (o che si percepiscono tali) sviluppano un atteggiamento di rifiuto (pienamente giustificato) delle istituzioni sociali e culturali che li hanno condotti sino alla crisi di cui non vedono uno sbocco. Le energie liberate dagli “esclusi” sono state studiate da un altro sociologo: James Rhodes, che ha elaborato una griglia di passaggi che stanno ad indicare l’affermarsi di una “coscienza millenarista”. In primo luogo le persone si sentono (a ragione) vittime di una catastrofe che travolge ogni punto di riferimento precedente. In questa condizione si crea un brodo di cultura dal quale possono emergere degli autentici “solutori” o dei “profeti”. I “solutori” riescono ad incanalare il disagio diffuso all’interno di pratiche reattive razionali ma, disgraziatamente, si tratta di figure che – quasi sempre – non hanno un carisma necessario per imporsi in un clima di panico. In altri termini il “solutore” non grida, non si esagita, non si pone come “salvatore”. Nel panico hanno più presa i “profeti”. Questi si accreditano perché vivono o sostengono di vivere una improvvisa rivelazione che spiega loro il motivo delle sofferenze collettive e promette la salvezza dalle sventure presenti. I “profeti” non sono “uomini nuovi”, anzi, erano perfettamente inseriti nel sistema andato in crisi e non si erano distinti in precedenza per averlo criticato. Qui sta la loro forza: come il resto della massa che vogliono guidare dichiarano (esplicitamente o implicitamente) di essere stati anch’essi ciechi prima della rivelazione. Il “profeta” nelle sue visioni mistiche (che laicamente possono diventare “prese di coscienza”) scopre che la causa delle difficoltà sono causate dal principio del Male (che a seconda delle circostanze varia nella sua incarnazione pratica: ebrei, comunisti, infedeli, euristi, tedeschi, etc.). Questo principio del Male agisce attraverso agenti segreti che lavorano per nascondere la verità e trascinare nell’abisso la maggioranza. I “profeti” scoprono di essere stati scelti per combattere e sconfiggere le forze maligne salvando sé stessi e il popolo. Percepiscono che si è arrivati vicini al giorno della resa dei conti. Giorno in cui il Male vibrerà il colpo finale al quale sopravviveranno solo coloro che hanno creduto alla “rivelazione”. Dopo questa lotta finale coloro che hanno creduto costruiranno l’ordine paradisiaco che verrà. Si salveranno solo coloro che – forgiati nella “tempesta d’acciaio” dello scontro finale – sapranno cogliere le opportunità del futuro indicato dal “profeta”.
Immagino che tutto ciò possa sembrare esagerato. Ma se ci riflettiamo in termini laici è esattamente ciò che sta accadendo. Abbiamo una serie di figure “profetiche”, incarnate da economisti che, usando la disciplina come “rivelazione”, stanno prefigurando scenari millenaristici. E, ovviamente, trovano consensi.
Il sorgere degli economisti-profeti non significa che non ci sia una crisi. La crisi c’è ed è drammatica. Quel che è però preoccupante è che la crisi non viene affrontata secondo un percorso razionale ma secondo un percorso fideistico. Ci sono coloro che credono e coloro che non credono alla soluzione del “profeta” e, ovviamente, coloro che non credono sono gli agenti del Male. Perciò i toni della “predicazione” diventano invariabilmente manichei e di assoluta contrapposizione. E se anche c’è qualcuno che concorda sulla analisi della crisi ma non si schiera in modo incondizionato con le idee del “profeta”, questo qualcuno diventa un “utile idiota” (nella migliore delle ipotesi) del Male.
Un’ultima caratteristica dell’affermarsi dei “profeti” è che il sistema crollato non viene messo in discussione in quanto tale. Il mondo è entrato nella fase di crisi non perché il sistema sul quale si basava era sbagliato ma perché il Male lo ha irreparabilmente danneggiato.
Così nessun economista-profeta dichiarerà che è il capitalismo che non funziona e che è alla radice della crisi. Piuttosto sono state delle perversioni particolari (capitalismo finanziario, introduzione dell’Euro) che ne hanno indebolito una intrinseca virtù che va recuperata.
Naturalmente il percorso di salvezza è irto di ostacoli: epidemie (leggi inflazione e disoccupazione), violenze degli agenti segreti (sempre detentori del potere oppressivo) e quant’altro. Ma tutte queste prove – ci dice il “profeta” saranno superate pur con grande sofferenza.
Queste tristi e penose figure di “profeti” hanno la capacità di coprire con il loro rumore di fondo le voci molto più flebili dei “solutori”. I quali, si badi bene, non sono meno “rivoluzionari”, anzi sono gli unici ad esserlo veramente nella misura in cui non si limitano a prefigurare la crisi di un sistema “buono” ma indicano il fallimento dell’intero paradigma.
Mentre il “profeta” individua un Male assoluto in un aspetto periferico e marginale della crisi, il “solutore” mette in rilievo la centralità del problema. Il che, tradotto in altri termini, significa che sul banco degli imputati sta il sistema che produce le crisi, non gli epifenomeni delle crisi come nel caso dei “profeti”.
E per parlare chiaro la questione “euro sì, euro no” è oggi un’arma di distrazione di massa usata da tutti coloro che hanno interesse a che nulla cambi realmente nel paradigma generale. Incanalare la discussione su questo epifenomeno fa comodo ai fautori dell’Euro. Infatti la loro soluzione alla crisi (frutto del non completamento del processo di unificazione europea) è più euro, ossia più capitalismo liberista. Fa comodo con gli anti-Euro perché li esonera dall’esercitare una critica al capitalismo in quanto tale offrendo la soluzione magica del ritorno ad un “capitalismo umano”.
Né gli uni né gli altri hanno la benché minima intenzione di smontare il meccanismo che crea le crisi. Gli uni lo vogliono rilanciare, gli altri lo vogliono, al massimo, rendere tollerabile.
Uscire da questo doppio inganno non è semplice e non è neppure immediato. Chi parla di rivoluzione imminente scambia – probabili – moti di piazza con la presa della Bastiglia. Il processo per uscire dalla trappola è molto più lungo e passa attraverso un paziente lavoro di recupero della coscienza collettiva. Nessuna rivoluzione è dietro l’angolo. Come ha scritto recentemente Luciano Canfora “la rivoluzione francese  aveva alle spalle un vasto retroterra di erosione critica e quindi è riuscita a cambiare l’orientamento spirituale della maggioranza del popolo”. Senza un lungo processo di “erosione critica” dei paradigmi di consumo, delle abitudini e dei comportamenti, senza un incessante lavoro che metta nel discorso pubblico i veri temi della crisi, temi per forza globali, nessuno si può illudere che ci sia cambiamento. L’illusione di poter cavalcare la crisi del disagio “pilotando” le persone è fallimentare. Nel breve termine non accadrà nulla. Non ci saranno né stati d’eccezione, né rivolte sociali in grado di trasformarsi in rivoluzioni di cambiamento effettivo. Ci sono e ci saranno bande di economisti-profeti e di economisti di regime, apparentemente in armi l’uno contro l’altro, in realtà perfettamente allineati nella volontà di rimettere in moto la stessa macchina che produce le crisi.

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