È appena apparso sugli scaffali delle librerie Tempora Multa. Il governo del tempo (Mimesis), una raccolta di saggi, esito di un seminario di studi tenutosi all’Università Bicocca di Milano fra il 2009 e il 2011, che si interroga sulla questione della temporalità plurale. Qui riproduciamo l’introduzione al libro, redatta da uno dei partecipanti al seminario.
Il cerchio e la linea
Si è soliti contrapporre la concezione greca del tempo a quella cristiana attraverso le metafore del cerchio e della linea: la grecità sarebbe dominata da una concezione circolare del tempo, sia naturale che storica, laddove il tempo cristiano avrebbe un’origine, la nascita di Cristo, ed un orientamento. Quanto alla grecità, la questione a guardare da vicino è più complessa[1], e tuttavia è difficile negare che il cerchio sia la metafora dominante nel concepire il cammino del tempo. Certo, nel «discorso verosimile» del Timeo platonico, è affermato il primato del tempo sul movimento, nella misura in cui il demiurgo genera ‘prima’ «il tempo [come] immagine mobile dell’eternità» e ‘poi’ il movimento circolare degli astri e pianeti, come segni del suo scorrere, come unità di misura delle differenti parti del tempo, mentre nella concezione aristotelica vi è un primato del movimento sul tempo, in quanto «numero del movimento secondo il prima e il poi»: in entrambi i casi tuttavia la sfera è la figura geometrica che domina la cosmologia e il cerchio quella che traccia lo scorrere del tempo. Eterna ripetizione dell’uguale, mimesi di una perfezione che Platone situa al di là del sensibile ed Aristotele nel mondo celeste. Dominanza del ciclo come paradigma non solo del tempo cosmologico, ma anche del tempo storico: basti pensare, da una parte, alla concezione stoica dei cicli cosmici secondo cui ogni evento storico si ripeterà in modo identico un numero infinito di volte e, dall’altra, alla teoria polibiana dell’anacyclosis, che, ricalcando modelli platonici e aristotelici, pensa le forme di governo in una sequenza che ritorna su stessa.
Il cristianesimo rompe con una concezione ciclica del tempo, la figura di Cristo costituisce uno spartiacque, tra un prima ed un poi, tra la preistoria e la storia, un punto di non ritorno. L’avvento di Cristo annuncia la venuta futura del suo regno ed ‘apre’ il tempo della storia che ad esso conduce. Anche qui, a guardare da vicino, le cose sono estremamente complesse, ma possono forse essere individuati due paradigmi fondamentali: quello esemplificato dalla sequenza dei regni di Gioacchino da Fiore (il cui terzo regno rende immanente alla storia la civitas dei agostiniana) e quello dell’irruzione improvvisa, del «Dio che viene come un ladro nella notte», di Paolo di Tarso. La modernità presenterà precisamente una secolarizzazione di questi due modelli di temporalità: da una parte le filosofie della storia dell’umanità in cui la linea-tempo è orientata verso un telos, dall’altra le cosiddette filosofie discontinuiste, in cui un tempo omogeneo e vuoto è interrotto dall’irrompere di un eschaton. Le une e le altre tuttavia si fondano su un comune presupposto, la creazione divina che istituisce la linea tempo fosse anche per eccederla o interromperla.
1. L’‘unica tradizione materialista’
Sia esso pensato sotto la forma greca del circolo o sotto la forma cristiana della linea orientata verso l’avvenire (che questo si presenti come telos o come eschaton), il tempo è un tempo unico, che il suo fondamento metafisico si trovi nell’idea platonica di eternità, nel movimento aristotelico della sfera o nella creazione continuata del Dio cristiano. Cioè, la pluralità dei tempi è ricondotta all’unità di un fondamento, sia esso cosmologico, metafisico o teologico.
Che cosa succederebbe se questo fondamento venisse meno? È la celebre domanda che si pone Agostino per opporsi alla riduzione del tempo al moto:
Ho sentito una volta affermare da un dotto che il tempo non è altro che il moto del sole, della luna e degli astri, ma non gli ho dato ragione. Perché allora il tempo non potrebbe essere il moto di tutti i corpi? Ma se si fermassero i luminari del cielo e continuasse a girare la ruota di un vasaio, forse che non ci sarebbe più il tempo per misurare quei giri […] e per dire se si susseguono a ritmo costante o se alcuni vanno più lenti, altri più veloci, alcuni più lunghi altri più brevi?[2]
Può essere tracciata una tradizione materialista che alla domanda di Agostino risponderebbe positivamente, ossia che il tempo non è pensabile senza il moto e che ogni moto ha una sua temporalità specifica?
Nella filosofia atomistica e in Epicuro l’infinità dei mondi non consente la reductio ad unum dei tempi. L’aristotelico numero del movimento secondo il prima e il poi non trova in Epicuro né un ancoraggio metafisico nella sostanza, né un ancoraggio cosmologico nel movimento della sfera di un universo finito. Nell’atomismo ogni sostanza è un’aggregazione temporanea ed ogni sfera è situata in un universo infinito di cui non si dà né fuori né oltre. Il tempo è «accidente di accidenti». Come scrive Lucrezio:
Dunque oltre il vuoto e la materia, una terza natura
non può in alcun modo essere annoverata fra le cose,
Ugualmente il tempo non esiste per sé, ma dalle cose stesse
deriva il senso di ciò che è trascorso nei secoli,
di ciò che incombe, o poi seguirà nel futuro.
Né si deve ammettere che alcuno avverta il tempo
separato dal movimento delle cose e dalla placida quiete.
[…]
[…] puoi vedere con chiarezza che tutti indistintamente gli eventi [res gestae]
non sussistono di per sé, né sono come i corpi,
né si possono dire della stessa natura del vuoto,
ma sono tali che più giustamente li puoi denominare
La complessa tessitura delle cose, la textura rerum, non è riconducibile ad un tempo unico. Ogni congiunzione di atomi ha un proprio ritmo, ma allo stesso tempo non esiste isolatamente, ma intrecciata ad innumerevoli altre. Il tempo non è altro che il sintomo di questa pluralità di ritmi il cui intrecciarsi infinito non concede una fondazione assoluta. Come scrive ancora Lucrezio:
Qualunque cosa avvenuta, la si potrà definire accidente [eventum],
Ciò che Epicuro e Lucrezio propongono a un livello cosmologico, la decostruzione della ipostasi di un tempo unico, viene operato da Machiavelli sul terreno della politica e della storia. Nei Discorsi non solo decostruisce tanto la teoria polibiana dell’anacyclosis quanto la linea tempo della narrazione biblica, ma si spinge ben oltre nella definizione dell’oggetto della sua ricerca: Roma non è pensata come la ‘forma mista’ capace di sottrarsi al ciclo, né come ideale umanistico, né infine come l’origine semplice di una filosofia della storia. La sua storia grandiosa è analizzata a partire dal primato della materia sulla forma, dal primato del caso e del conflitto sulla forma mista cui ha dato luogo, a partire dalla pluralità di forze che sottende l’unità. Nel Principe poi la politica è pensata in un orizzonte storico che si presenta precisamente come ‘variazione dei tempi’, come fortuna, ed in cui l’occasione si offre alla virtù (essa stessa plurale, incontro della golpe, dell’uomo e del leone) non nella forma di un kairos, in cui traluce un destino, ma nella forma materiale dell’intreccio di una pluralità di ritmi[5].
In Spinoza poi questo discorso viene rilanciato da un piano storico-politico a un piano ontologico, dalla critica biblica, in cui si mostra lo statuto immaginario della linea-tempo della narrazione del Libro, alla decostruzione della teologia e della metafisica della tradizione implicata in una teoria della sostanza la cui immanenza ai modi rende impensabile ogni forma di ancoraggio ad un assoluto che possa fondare la pretesa di un tempo unico: la sostanza di Spinoza non è presenza, non è il Dio newtoniano che garantisce l’assolutezza dello spazio e del tempo, ma è l’ordo delle connexiones delle durate, intreccio di ritmi rispetto a cui il tempo, l’ordine aristotelico secondo il prima e il poi, non è che l’immaginaria assolutizzazione di un ritmo, preso a misura degli altri, e l’eternità non costituisce un punto di vista panoramico, un ancoraggio assoluto, ma la precisa decostruzione della possibilità di una tale prospettiva: in questo senso la conoscenza sub specie aeternitatis è precisamente una conoscenza che relativizza, nella misura in cui esibisce il tessuto relazionale di ogni cosa singolare, il suo essere ritmo tra ritmi, composta di ritmi, attraversata da ritmi, non una che assolutizza, cioè uno sguardo di Medusa che pietrifica i modi in un abissale nunc stans; conoscere sub specie aeternitatis la storia del popolo ebraico significa precisamente rinunciare all’identificazione immaginaria di tempo della narrazione del Libro e tempo del mondo, per conoscerne il tessuto materiale, l’organizzazione economica, politica, gli apparati ideologici (i riti) e i conflitti che lo attraversano e dentro al quale la narrazione stessa acquisisce il suo significato congiunturale[6].
Infine in Darwin, sul piano della storia del vivente, viene respinta l’idea di un tempo unico come legge dell’evoluzione delle specie. Nella misura in cui la teoria darwiniana rende impensabile non solo il tempo circolare della riproduzione delle forme viventi, che mimano nel mondo sublunare il movimento del mondo celeste (quello che verrà definito, dopo la rottura darwiniana, il fissismo), ma anche una linea-tempo su cui si dispiega la loro evoluzione teleologicamente orientata (elemento frainteso nella lettura tardo-ottocentesca di Darwin). Il tempo darwiniano è plurale, perché corrisponde alla molteplicità di forze che si affrontano nella lotta per l’esistenza, che tuttavia deve essere intesa in modo metaforico, come complessa rete di relazioni che dà luogo alla continuità o alla discontinuità della storia naturale:
[…] nel corso del tempo le forze finiscono col bilanciarsi così perfettamente che il volto della natura si mantiene inalterato per lunghi periodi, benché sia indubitabile che la causa più insignificante potrebbe assicurare la vittoria di un essere organizzato su di un altro. La nostra ignoranza, però, è così profonda, e così grande è la nostra presunzione che ci meravigliamo quando sentiamo parlare della estinzione di una specie e, non ravvisandone le cause, pensiamo a cataclismi distruttori del mondo e inventiamo leggi sulla durata delle forme viventi[7].
In altre parole, in principio era per Darwin la complessità, la pluralità delle forze che interagiscono attraverso a web of complex relations, anche dove il volto della natura si mantiene invariato per lunghi periodi: la semplicità, cioè, è uno dei possibili effetti della complessità, mai la regola, mai la legge d’ordine.
Lucrezio, Machiavelli, Spinoza, Darwin. Tradizione assai eterogenea: un poeta latino, un segretario fiorentino, un filosofo ebreo olandese ed un naturalista inglese. In realtà una tradizione solo nella misura in cui essa fornisce una cassetta di strumenti a cui attingere, su un piano ontologico, fisico, biologico, storico o politico, per pensare la questione della temporalità plurale dentro la tradizione marxista, spostandone tuttavia i rapporti di forza interni. Circolo virtuoso: perché se è vero che è la domanda marxista a costituire questa tradizione après coup, è vero anche che la risposta retroagisce sulla stessa tradizione marxista, rendendo visibile ciò che prima non lo era o lo era solo in misura parziale e confusa.
2. La tradizione marxista
Quella della temporalità plurale è stata una questione decisamente marginale nella tradizione marxista, largamente dominata da una filosofia della storia universale e dall’egemonia di un tempo unico: la sintassi hegeliana del divenir soggetto della sostanza attraverso il farsi tempo del concetto guida il cammino storico dell’umanità fino alla trasparenza del comunismo, secolarizzazione del messia. Il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, dalla preistoria alla storia, come scrive Marx nella celebre «Prefazione» del ’59:
[…] l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica. I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorge dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria [Vorgeschichte] della società umana[8].
Un tempo solo, il tempo della storia universale, sui cui si dispongono in successione le varie epoche: dal grande affresco del Manifesto del partito comunista, alle pagine della «Prefazione» del ’59, su fino all’Anti-Dühring e al determinismo della seconda internazionale e all’imposizione del modello bolscevico nella terza, e, dulcis in fundo nell’Histo-Mat staliniano; ma anche nel cosiddetto ‘marxismo occidentale’, da Storia e coscienza di classe alla Dialettica dell’illuminismo, a Eros e civiltà sino all’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta e al Negri del Potere costituente, la storia è pensata sul binario di una linea-tempo unica e orientata. Tuttavia dentro questa tradizione è possibile ritrovare le tracce di un tentativo differente, spesso sotto forma di sintomo dell’insufficienza del paradigma del tempo unico, della filosofia della storia.
Nelle pagine del giovane Marx dell’«Introduzione alla Critica del diritto statuale hegeliano» la temporalità plurale appare per spiegare il differente sviluppo storico di Francia, Germania e Inghilterra attraverso un gioco di anticipi e ritardi che fa della Germania un crogiuolo di più tempi: contemporanea del passato dei popoli europei sul piano sociale, contemporanea del loro presente sul piano della teoria dello Stato, contemporanea del loro futuro nella critica, nella filosofia[9].
Ritorna nelle pagine finali dell’Introduzione del ’57 all’interno del tentativo di problematizzare la questione dei rapporti tra struttura e sovrastruttura nella forma di una serie di punti da sviluppare:
Ritorna nelle pagine finali dell’Introduzione del ’57 all’interno del tentativo di problematizzare la questione dei rapporti tra struttura e sovrastruttura nella forma di una serie di punti da sviluppare:
Il rapporto ineguale dello sviluppo della produzione materiale rispetto, ad esempio, a quella artistica. In generale il concetto di progresso non va inteso nell’abituale astrattezza [gewöhnlichen Abstraktion]. Nell’arte ecc. questa sproporzione [Disproportion] non è ancora tanto importante e difficile da cogliere quanto all’interno dei rapporti sociali pratici stessi. Ad esempio dell’istruzione. Rapporto degli United States con l’Europa. Il punto realmente difficile da discutere qui è però come i rapporti di produzione in quanto rapporti giuridici abbiano uno sviluppo ineguale [ungleiche]. Così ad esempio il rapporto del diritto privato romano (nel diritto penale e pubblico ciò si verifica in misura minore) con la produzione moderna[10].
Riappare infine in alcune pagine del vecchio Marx: dapprima nel capitolo sull’accumulazione originaria, che lungi dall’essere quella dialettica della violenza condensata nella conclusione del capitolo dalla formula sull’espropriazione degli espropriatori (la negazione della negazione), in realtà ne è una vera e propria archeologia: il termine violenza è la forma riassuntiva e generica di una pluralità di processi reali che va dalla conquista al soggiogamento, dall’assassinio alla rapina, non l’univoco indicatore direzionale di un processo di transizione da una società all’altra che avviene ad un tempo ovunque. Essa dissolve alcune forme di esistenza della società feudale liberando degli elementi che si congiungeranno dando luogo alla società capitalistica, ma mai attraverso un modello di causalità semplice e transitiva: il proletariato inglese (e la localizzazione del processo è già una cautela metodologica contro filosofie complessive della violenza) è l’effetto di una pluralità di cause che in nessun modo lo contenevano in anticipo (lo scioglimento dei seguiti feudali, le recinzioni delle terre comuni per il pascolo delle pecore, il furto dei beni ecclesiastici effetto della Riforma, il clearing of estates, cioè l’estromissione dei fittavoli dalle grandi proprietà), ognuna delle quali va analizzata nella sua temporalità specifica: per esempio, nella differenza tra la relativa istantaneità del furto dei beni ecclesiastici e del clearing of estates nell’Alta Scozia e in Irlanda, e il processo di lunga durata dell’espropriazione delle terre comuni che va dal XV secolo al XVIII pur mutando natura da «azione violenta individuale» all’uso della «legge [come] veicolo di rapina». La violenza acquista dunque un senso solo in una storia fatta al futuro anteriore, ex post, in cui la fluttuazione che ha preceduto la congiunzione è imprigionata in un tempo lineare e teleologico[11]. Infine nei Quaderni etnologici, il cui nocciolo teorico sarebbe un «modello multilineare di sviluppo storico»[12], e in una celebre lettera a Vera Zasulič, in cui Marx posto di fronte alla questione della comune rurale russa (obščina) e della sua pensabilità dentro il quadro teorico degli stadi di sviluppo. In particolare nel primo abbozzo della lettera a Vera Zasulič troviamo una importante riflessione sulle comunità primitive:
La storia della decadenza delle comunità primitive (sbaglierebbe chi le mettesse tutte sulla stessa linea; come nelle formazioni geologiche, v’è nelle formazioni storiche tutta una serie di tipi primari, secondari, terziari ecc.) è ancora da fare […] Comunque l’indagine è già abbastanza avanzata per poter dire: a) che la vitalità delle comunità primitive era incomparabilmente maggiore di quella delle società semitiche, greche, romane ecc. e, a fortiori, di quella delle moderne società capitalistiche, b) che le cause della loro decadenza derivano da dati economici che impedirono loro di superare un certo grado di sviluppo, da ambienti storici del tutto diversi da quello della comune russa di oggigiorno[13].
In questo tentativo marxiano di pensare il tempo attraverso la metafora degli strati geologici è evidente l’intenzione di evitare una concezione rigidamente stadiale della storia: la storia è successione certo, ma anche stratificazione di tempi, ed in questo senso l’obščina non rappresenta semplicemente l’arcaico, e come tale un residuo del passato condannato a perire, ma uno strato temporale presente e attivo, in questo senso dunque anche la possibilità reale di una via alternativa alla modernizzazione capitalistica occidentale[14].
Ma è forse nell’analisi della temporalità del Capitale che troviamo il tentativo più sistematico di svincolarsi da un concetto di tempo unico e lineare. Althusser ha sottolineato con forza quest’aspetto: nel Capitale Marx mostra come il tempo della produzione economica non possa essere letto nella continuità del tempo della vita o degli orologi. Si tratta invece di un tempo complesso e non lineare, un tempo di tempi che deve essere costruito a partire dalle strutture proprie della produzione, dai diversi ritmi che scandiscono la produzione, la distribuzione e la circolazione.
Tombazos è tornato sulla questione con uno studio approfondito, articolando l’analisi sui differenti libri del Capitale[15]. E proprio sulla differente temporalità disegnata dai tre libri insiste l’analisi di Bracaletti: nel primo libro saremmo di fronte ad un tempo in cui ogni capitale è giustapposto agli altri ed è isolato «nella sincronicità astratta di un tempo spazializzato in cui esiste solo la produzione»[16]; nel secondo libro incontriamo invece una temporalità ciclica in cui è centrale «il concetto di rotazione del capitale» che comprende l’intrecciarsi, senza armonia prestabilita, dei cicli del capitale denaro, del capitale merce e del capitale produttivo, ma ancora la differente modalità temporale con cui capitale fisso e capitale circolante entrano nel ciclo produttivo: «all’interno di questa temporalità ciclica si intrecciano […] forme di simultaneità e non simultaneità»[17]; infine nel terzo libro siamo di fronte ad una temporalità che Tombazos definisce organica e che Bracaletti propone più giustamente di definire ‘mista’, nella misura in cui siamo di fronte alla compresenza contraddittoria delle temporalità precedentemente definite: in questo senso, «nel complesso sovrapporsi di simultaneità e non simultaneità, di linearità e ciclicità […], il tempo del capitale risulta essere un tempo del disequilibrio»[18].
Una critica a una teoria classica del tempo unico è rintracciabile lungo tutta la produzione filosofica di Ernst Bloch, dallo Spirito dell’utopia a Experimentum mundi. È tuttavia con Eredità del nostro tempo che questa trova il centro della scena, di fronte alle difficoltà di spiegare il sorgere di un fenomeno storico come il nazismo attraverso il modello marxista della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione: che ‘razza’ di stadio di sviluppo è infatti il nazismo nella logica di un tempo lineare e teleologicamente orientato verso il comunismo? Nel saggio centrale di questa raccolta, «La non contemporaneità e il dovere di renderla dialettica», Bloch propone precisamente una dialettica multispaziale e multitemporale capace di rendere conto delle non contemporaneità oggettive e soggettive compresenti nella società tedesca, dei tempi che, per così dire, si mettono di traverso rispetto alla contraddizione principale capitale/lavoro. E su questi temi ritornerà alcuni anni dopo in Differenziazioni sul concetto di progresso, nel contesto della Repubblica Democratica Tedesca del dopoguerra, per rivolgere una critica al modello eurocentrico di filosofia della storia, ma allo stesso tempo per mettere in crisi l’ideologia dominante nel mondo sovietico degli stadi di sviluppo attraverso un modello di progresso multilineare, un cocchio trainato da molti cavalli, un multiversum che rifiuta tanto la sequenza temporale degli stadi di sviluppo delle società, ordinate secondo una scala gerarchica storico-geografica, quanto la contemporaneità dei differenti elementi che costituiscono ogni società, quanto infine la freccia natura-storia, che fa della prima il semplice ambiente intemporale della seconda.
Più o meno negli stessi anni in cui Bloch scrive gli articoli che comporranno l’Eredità del nostro tempo, Gramsci stende in una prigione fascista le note che verranno poi raccolte nei Quaderni dal carcere. E, al di là della curvatura storicistica impressagli da Togliatti nel dopoguerra, sono rintracciabili nel pensiero di Gramsci spunti rilevanti per pensare la strutturale non contemporaneità del presente e la natura ‘fratturata’ del tempo storico: nella teoria gramsciana dell’individuo (la «persona») come un «sito archeologico vivente» in cui il processo storico «ha lasciato una infinità di tracce», ha depositato strati di sedimentazioni. Nelle considerazioni sulla lingua che Gramsci non pensa come una realtà omogenea e statica, bensì come un prodotto sociale stratificato, eterogeneo, sempre in fieri, innovato in modo differente e con ritmi differenti (la distinzione gramsciana tra effetto «molecolare» o «di massa») dai diversi linguaggi parlati da classi e strati diversi della popolazione: quest’innovazione, questa continua acquisizione dei termini di nuovi significati metaforici differenti dal significato originario, fanno sì che il linguaggio sia al tempo stesso una realtà viva ed un «museo di fossili della vita e delle civiltà passate». E ancora nelle riflessioni sul rapporto tra lingue nazionali e dialetti, che lascia tralucere differenti temporalità, la cui relazione gerarchica è legata in ultima istanza alla relazione forze subalterne – forze egemoni, senza tuttavia che i dialetti siano pensati come puramente residuali e separati dalla lingua nazionale: se da una parte infatti Gramsci attribuisce al dialetto la caratteristica di essere veicolo di una concezione del mondo «fossilizzata e anacronistica», ritiene al tempo stesso che esso eserciti un forte influsso sulla lingua nazionale e possa costituire anche un possibile focolaio di innovazione della lingua. Infine nelle considerazioni sul presente degli Stati-Nazione, fratturato al loro interno tra centri urbani e periferie rurali e non contemporaneo al loro esterno, ad un livello internazionale, proprio perché le relazioni egemoniche relegano alcune formazioni sociali a essere il ‘passato’ di altre, il cui esempio privilegiato è la differenza tra Oriente ed Occidente rilevata non sulla base di una linea-tempo progressiva in cui l’Occidente sarebbe il punto avanzato e l’Oriente quello sottosviluppato, e nemmeno alla luce di un modello idealtipico di Stato, presente in Occidente e assente in Oriente, ma come risultato dell’espansione imperialista che impone un’unità essenziale alla disparità delle esperienze storiche nazionali. Questa non contemporaneità del presente, questa stratificazione temporale, questa pluralità di tempi, è secondo Gramsci il sintomo per eccellenza della lotta delle classi[19].
Ad una non contemporaneità del presente fa cenno anche Pasolini nelle Ceneri di Gramsci, in cui è istituita una contrapposizione tra la forma di vita borghese, che possiede la storia («il più esaltante / dei possessi borghesi») e la vita delle borgate
corporea, collettiva presenza
[…] non vita, ma sopravvivenza
– forse più lieta della vita – come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
che per l’operare quotidiano[20]
Pasolini oppone le due forme di vita come lo spirito alla natura, in una sorta di hegelismo capovolto, in cui la vera vita non è quella della storia, dello spirito, ma quella popolare, quella di borgata, immersa nell’intemporalità della natura:
Quanto più è vano
– in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
È questa sospensione della storia che Pasolini rappresenta prima in Racconti e cronache romane, in Accattone e in Mamma Roma, e poi cerca in altri luoghi e in altri tempi, con Medea, con Le mille e una notte, con Il vangelo secondo Matteo. Tuttavia Pinzolo, a partire da un’analisi degli scritti sulla linguistica e sulla semiologia del cinema di Pasolini, ci invita a non leggere in modo ingenuo questa opposizione come opposizione di moderno e primitivo, naturale: è la modernità stessa infatti che costruisce il primitivo, come resto, sopravvivenza, molteplicità di strati di civiltà superata. Di questa modernità Pasolini ci propone un’ermeneutica:
Il problema, per Pasolini, sarà pensare l’inserzione dell’eterogeneo nell’omogeneo a partire dalla lotta di classe intesa come divaricazione di tempi, soggetti e luoghi. Lo sviluppo del capitalismo, con la conseguente necessità di ampliare l’esercito della forza-lavoro e quello dei consumatori, ha prodotto l’urbanizzazione della popolazione rurale e la creazione del sottoproletariato. L’occupazione degli spazi produce la pluralità dei ritmi temporali e la loro differente scansione, portando a una paradossale fenomenologia della lotta delle classi, che si trova a dover pensare un conflitto assoluto, ossia senza riconoscimento possibile tra i confliggenti, senza posta in gioco comune: il conflitto tra chi combatte e chi è già sempre fuori dal combattimento, fuori gioco, perché posto ai margini del conflitto stesso. Come sarà possibile la lotta tra chi combatte perché cerca qualcosa, in quanto vive una temporalità orientata e scandita secondo la freccia dell’asse sviluppo-progresso, e chi non combatte perché non cerca niente e non vuole ottenere niente, in quanto vive una temporalità che non conosce divenire? A tutti gli effetti, non può che trattarsi di un antagonismo congelato, in cui alla conflittualità di una parte corrisponde la resa preliminare dell’altra[22].
Per certi versi affine a quella pasoliniana la lettura che Althusser propone della messa in scena strehleriana del Nost Milan di Bertolazzi: nell’opera Althusser vede rappresentate due forme di temporalità che si alternano sulla scena senza alcun apparente nesso causale: la temporalità vuota della miseria della vita popolare milanese e la temporalità piena, istantanea, drammatica dello svolgersi di una storia, un tempo dialettico in cui un telos guida la contraddizione che lo attraversa. Secondo Althusser è proprio l’assenza di rapporti che costituisce il vero rapporto, l’originalità della messa in scena di Strehler consiste cioè proprio nel rappresentare e far vivere questa assenza di rapporti, mostrando che il dramma non è al centro, ma ai margini:
Il paradosso di El nost Milan è che la dialettica vi compare per così dire lateralmente, di straforo [latéralement, à la cantonade], in qualche angolo della scena e sul finire degli atti: questa dialettica l’aspettiamo invano, i personaggi se ne infischiano. Essa indugia ad arrivare e in ogni caso non giunge che alla fine[23].
Questa critica alla temporalità dialettica, qui solo adombrata, viene ripresa in altri saggi di Per Marx e nell’«Oggetto del Capitale» all’interno di un progetto di generale ripensamento del marxismo in senso antihegeliano (ma forse sarebbe più esatto dire ‘non hegeliano’, come suggerisce Frosini[24]) che aveva evidentemente lo scopo di colpire tanto l’ideologia marxista sovietica quanto il cosiddetto marxismo Occidentale (materialismo storico come teoria degli stadi, da una parte, e umanistico racconto del cammino dell’umanità dall’alienazione alla trasparenza, dall’altro). In «L’oggetto del Capitale» Althusser propone di pensare/costruire lo specifico concetto di tempo storico marxista per differenza rispetto al tempo hegeliano fondato su contemporaneità e successione. Pensare la società come un tutto complesso strutturato, significa pensare la sua temporalità non nella forma di una contemporaneità essenziale, di cui ogni elemento non sarebbe che una espressione, bensì di una strutturale non contemporaneità, dove per strutturale si intende il rigetto di un tempo fondamentale rispetto a cui gli altri tempi sarebbero in anticipo o in ritardo, ma insieme una precisa articolazione dei tempi in una data formazione sociale (cioè l’autonomia dei livelli è relativa, ma non assoluta). Ora, pensare la politica e la filosofia secondo il modello dell’‘autonomia relativa’ dall’interno del Partito comunista francese negli anni Sessanta, significa svincolare da una parte la politica dal flusso della corrente storica e dall’altra svincolare la filosofia, la teoria, dall’immediato vincolo con la politica: cioè significa da una parte togliere alla politica la legittimazione della destinalità storica, dall’altra pensare la filosofia non in termini di legittimazione della linea politica data, ma come forza critica.
Infine, tra la fine del secolo passato e l’inizio di questo, un certo numero di studiosi di origine e formazione molto differenti, riuniti sotto la generica categoria dei Postcolonial Studies, ha proposto una critica del tempo unico e della storia universale come ideologia del colonialismo e dell’imperialismo[25]. Da Edward Said, che in Orientalismo critica la partizione classica Oriente/Occidente, partizione costruita dal punto di vista occidentale ed in cui è implicita una gerarchia che fa del primo momento la preistoria del secondo, a Ranajit Guha, fondatore dei Subaltern Studies, che ha mostrato come la Weltgeschichte hegeliana costituisca un confine assoluto tanto spaziale quanto temporale tra lo spazio della civiltà, l’Europa, e lo spazio della barbarie, i continenti colonizzati, a Chakrabarty e Chaterjee, che forniscono una critica della temporalità del moderno fondata sulla rimozione, al servizio del colonialismo prima e del nazionalismo poi, di tutte le temporalità eterogenee. Chakrabarty, in Provincializzare l’Europa, propone una critica allo storicismo in quanto ideologia del progresso incentrata su un’idea di capitalismo e di modernità che costituirebbe il telos verso cui tenderebbero le temporalità non europee, pensate dunque nella forma del «not yet», cioè sempre come «figure of lack», di una transizione al moderno non ancora completata. Chakrabarty, sviluppando una distinzione marxiana, propone di chiamare Storia 1 il tempo omogeneo e vuoto posto dal capitale, il tempo del lavoro astratto, e Storia 2 le temporalità plurali eterogenee che preesistono al capitale: la proposta è non di pensare la Storia 2 come l’altro della Storia 1, bensì di pensarle insieme, distruggendo da un lato la distinzione topologica tra un ‘dentro’ ed un ‘fuori’ del capitalismo e dall’altro facendo di ogni modello di capitalismo un compromesso provvisorio tra Storia 1 e Storia 2 (cioè non si dà alcun modello di capitalismo – quello dello spirito protestante weberiano – come universale che possa ergersi a telos degli altri). La Storia 2 ha precisamente la funzione di interrompere costantemente la totalizzazione della Storia 1, rivelando la natura fratturata e plurale del presente: le storie subalterne, in altre parole, sono iscritte dentro la storia del capitale e tuttavia non devono essere pensate attraverso il modello della transizione, ma piuttosto della traduzione, in modo da essere in grado di comprenderne la specificità. Echeggiando la lettura derridiana dell’Amleto proposta in Spettri di Marx, Chakrabarty afferma che il tempo è in se stesso «out of joint», fuori dai cardini, che all’ora, al presente, inerisce necessariamente una pluralità, un’assenza di chiusura, una costante frammentarietà, che non può essere compresa attraverso il modello dell’anacronismo, cioè supponendo contemporanei del presente delle sopravvivenze del passato. Si deve invece pensare l’ora, il presente, come strutturalmente non-uno, cioè senza la promessa che un principio possa un giorno chiudere questa eterogeneità e incompletezza in una totalità: la Storia 2 frattura il tempo omogeneo e vuoto della Storia 1 attraverso un futuro che è già presente in esso, e che tuttavia è strutturalmente plurale, cioè non porta con sé alcuna chiusura della totalità ed anzi è precisamente ciò che rende la impossibile. I futuri plurali della Storia 2 rendono l’ora costantemente frammentato, senza però che un frammento possa essere addizionato ad un altro sino a prefigurare una totalità: questo, secondo Chakrabarty, è il modo in cui l’arcaico entra nel moderno, non come «remnant» di un altro tempo, ma come costitutivo del presente. Chatterjee, in Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, ha sottolineato come il tempo vuoto e omogeneo del capitale, della modernità, trasformi ogni altro tempo che ad esso si opponga in una resistenza premoderna, in un residuo, in un arcaismo, dando luogo alla rimozione del tempo eterogeneo dello spazio reale, caratterizzato da densità differenti, una vera e propria pluralità di tempi che non sono affatto le vestigia di un passato pre-moderno, ma sono co-presenti e dunque costituiscono dei possibili vettori di conflittualità: è per pensare questa compresenza nella società indiana che, da un lato proseguendo e dall’altro rettificando i lavori seminali di Guha, Chatterjee introduce il concetto, di ascendenza gramsciana, di ‘società politica’, per dar conto della politica dei governati nella realtà postcoloniale indiana. All’omogeneità della nazione e della cittadinanza che trova il suo fondamento nella società civile individualistica, campo d’azione della politica delle élites, fa da contraltare l’eterogeneità sociale della popolazione su cui agisce la governamentalità intesa in senso foucaultiano: la società politica costituisce allora, secondo Chatterjee, un ambito di negoziazione e contestazione di gruppi eterogenei di popolazione, la cui azione paralegale non costituisce affatto l’aspetto patologico di una modernità arretrata, ma piuttosto un elemento della costituzione storica della modernità.
3. Tempo premoderno, tempo postmoderno e tempo vissuto
Dovrebbe dunque risultare chiaro, dal percorso tracciato, in che senso in questo libro, che è l’esito di una serie di incontri che si sono svolti all’Università di Milano Bicocca tra il 2009 e il 2011, è stata affrontata la questione della temporalità plurale: leggendo la tradizione marxista attraverso la tradizione materialista, provando a sollecitare delle risposte sulla questione della temporalità plurale. Naturalmente le risposte non sono state univoche, come risulterà chiaro dalla lettura del dibattito che ha avuto luogo alla fine del seminario, e tuttavia hanno condotto a delimitare con chiarezza un campo problematico, a tracciare delle linee di demarcazione rispetto ad altre concezioni plurali del tempo. In primo luogo si è notato, ma in fondo si trattava di un’ovvietà, che nessun ritorno ad una concezione premoderna del tempo è possibile, ossia, nei termini di una Begriffsgeschichte à la Kosellek, nessun ritorno alle historiae che precedono la formazione del singolare collettivo Geschichte è possibile; ovvero, in termini marxisti, nessun ritorno ad un ‘prima’ della formazione del mercato mondiale. In secondo luogo, e questo è un punto di gran lunga più importante, si è avuto cura di tracciare con precisione la distanza del nostro tentativo dalla chiacchiera postmoderna della molteplicità dei tempi e delle narrazioni, molteplicità irrelata ed indifferente. A questo proposito sono di estremo interesse alcune riflessioni che Derrida fece in una intervista dei primi anni Settanta a proposito dell’«Abbozzo del concetto di tempo storico» proposta da Althusser:
La critica, quanto mai necessaria, che Althusser ha formulato a proposito del concetto ‘hegeliano’ di storia, della nozione di totalità espressiva, ecc. mira appunto a mostrare che non c’è una storia sola, una storia generale, bensì che ci sono storie differenti per tipo, ritmo, modo d’inscrizione, storie scalate, differenziate, ecc. [il n'y a pas une seule histoire, une histoire générale mais des histoire différentes dans leur type, leur rythme, leur mode d'inscription, histoires décalées, différenciées, etc.][26].
A cela – aggiunge Derrida – j’ai toujours souscrit. Derrida trova in Althusser il suo stesso rifiuto di uno schema lineare dello svolgimento della presenza espresso nella Grammatologia. Non una storia, dunque, ma più storie, così sintetizza Derrida e concorda. Ma nel passaggio successivo marca una distanza:
Ma il mio problema è un altro: sulla base di quale nucleo semantico minimo si possono ancora chiamare ‘storie’ questi tipi di storia eterogenei, irriducibili, ecc.? Come si fa a determinare il loro minimo comun denominatore, se non è per mera convenzione o per semplice confusione che si attribuisce loro il nome comune di storia? […] Dal momento in cui si pone la questione della storicità della storia – e come evitarla maneggiando un concetto pluralista ed eterogeneista di storia –, si è tentati di rispondere con una definizione d’essenza, di quiddità, si è tentati cioè di ricostituire un sistema di predicati essenziali, e quindi si è spinti a rimaneggiare tutto il fondo semantico della tradizione filosofica. La quale, appunto, finisce sempre per comprendere la storicità su una base ontologica. Da questo momento, allora, bisogna chiedersi non soltanto quale sia l’‘essenza’ della storia, la storicità della storia, ma quale sia la ‘storia’ dell’‘essenza’ in generale. E per chi voglia marcare una rottura fra un ‘nuovo concetto di storia’ e il problema dell’essenza della storia (così come del concetto ch’essa regola), il problema della storia dell’essenza e della storia del concetto, infine della storia del senso dell’essere[27].
Il rischio è, secondo Derrida, la riappropriazione metafisica del concetto di Storia. Questo carattere non è legato solo alla linearità, secondo Derrida, ma «a tutto un sistema di implicazioni (teologia, escatologia, accumulazione togliente e interiorizzazione del tempo, un certo tipo di tradizionalità, un certo concetto di continuità)»[28]. Per il concetto di storia, così come per ogni altro concetto, aggiunge Derrida, «non si può operare una mutazione semplice e istantanea»: «bisogna invece elaborare una strategia del lavoro testuale che, ad ogni istante, prenda a prestito dalla filosofia un vecchio termine e subito lo smarchi»[29].
Da queste acute riflessioni di Derrida comincia il postmoderno (ed esse ci dispensano in fondo dall’occuparci di tutta la chiacchiera successiva). E tuttavia queste riflessioni si fondano sulla rimozione di un aspetto fondamentale del discorso di Althusser: la questione non è semplicemente la pluralità dei tempi, la pluralità dei ritmi, la pluralità delle storie, ma l’articolazione di questa pluralità, e soprattutto non è qui questione di narrazione, ma di strutture materiali di differente livello (materiali, nel senso in cui sono materiali le diverse pratiche e la loro incorporazione di rapporti di potere). Così come Bloch rifiutava le isole dei cicli di cultura à la Spengler, Althusser rifiuta di pensare la temporalità di differenti livelli sociali come irrelati: se non vi è mai intra-espressività tra i livelli, vi è tuttavia sempre articolazione, benché essa si dia nella forma problematica di una determinazione di un’ultima istanza la cui «ora solitaria non suona mai».
Infine un’ultima linea di demarcazione deve essere tracciata, rispetto alla filosofia dell’esperienza o alla filosofia del vissuto. Il multiversum, la pluralità di temporalità, il differente ritmo, gli intrecci, le rotture e le discontinuità, non sono da pensarsi in modo soggettivo all’interno di uno stream of consciousness in cui sarebbero compresenti più tempi. La problematica della temporalità plurale qui delimitata non ha nulla a che vedere con James, Bergson, Dilthey o Husserl; non sono qui in questione i molteplici tempi della coscienza soggettiva, ma la materialità dei differenti livelli della struttura sociale di cui la coscienza soggettiva, così come ogni forma di narratività, non sono che un effetto, effetto materiale di dispositivi e di apparati che modellano l’immaginario sociale, attraverso cui i soggetti ‘vivono’ il proprio mondo. Se multiversum si dà nel soggetto, esso deve essere pensato sempre come risultato e non come originario: la stratificazione delle temporalità del soggetto non è né il fondamento ultimo né lo specchio di una totalità sociale data, ma l’effetto del suo essere costituito/attraversato dai rapporti sociali sempre in una posizione data, cioè del suo essere sempre-già posizionato all’interno di determinati rapporti di forze e preso in determinate narrazioni che si dispiegano su più livelli temporali. Come dice Althusser, on nait toujours quelque part… Siamo fatti di tempo, di strati di tempo, di intrecci di tempo. Ed in questi intrecci si dà la possibilità della nostra azione.
Vittorio Morfino è ricercatore di Storia della filosofia all’Università di Milano-Bicocca. È autore di Substantia sive Organismus. Immagine e funzione teorica di Spinoza negli scritti jenesi di Hegel (Guerini 1997), Il tempo e l’occasione. L’incontro Spinoza-Machiavelli (LED 2002), Spinoza e il non contemporaneo (Ombre Corte 2009). Ha curato anche l’edizione italiana degli ultimi scritti di Louis Althusser (Unicopli 2000 e Mimesis 2003).
NOTE
[1] Cfr. ad esempio A. Momigliano, «Time in Ancient Historiography», History and Theory, 6 (1966), pp. 1-23 e M. Vegetti, «Tempo e storia nell’esperienza greca», in S. Borutti (a cura di), Memoria e scrittura della filosofia, Milano, Mimesis, 2000, p. 353-360.
[2] Aug., Conf., XI, 23; ed. it a cura di M. Cristiani, M. Simonetti e A. Solignac, tr.it. di G. Chiarini, Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, 1996, p. 141.
[3] Lucr., De rer. Nat., I, vv. 445-482.
[4] Lucr., De rer. Nat., I, vv. 469-470.
[5] Rinvio, per questa lettura di Machiavelli, al mio Il tempo della moltitudine, Roma, manifestolibri, 2005 e a «Le cinque tesi della ‘filosofia’ di Machiavelli», in R. Caporali, V. Morfino, S. Visentin (a cura di), Machiavelli: tempo e conflitto, Milano, Mimesis, 2012 (in corso di pubblicazione). Cfr. anche F. Del Lucchese, Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, Milano, Ghibli, 2004.
[6] Cfr. il mio Spinoza e il non contemporaneo, Verona, Ombrecorte, 2009.
[7] Ch. Darwin, The origin of species by means of natural selection, in The Works of Charles Darwin, vol. 16, London, William Pickering, 1988, p. 59, tr. it. di L. Fratini, Torino, Bollati Boringhieri, 1967, p. 141. Per una più ampia lettura di Darwin cfr. il mio «La ‘filosofia’ di Darwin», Quaderni materialisti, 6 (2007), pp. 205-218.
[8] K. Marx, «Vorwort» a Zur Kritik der politischen Oekonomie, in MEW, Bd. 13, 1961, p. 9, tr. it. in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. 30, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 299.
[9] Cfr. F. Frosini, Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità e politica, Roma, DeriveApprodi, 2009, pp. 47-62
[10] K. Marx, «Einleitung [zu den Grundrissen der Kritik der politischen Ökonomie]», in MEW, Bd. 42, p. 43, tr. it. in Marx Engels Opere, vol. 29, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 42.
[11] Cfr. il mio «La sintassi della violenza tra Hegel e Marx», Quaderni materialisti, 3-4, 2004-2005, pp. 285-302.[12] K. Anderson, «Marx’s Late Writings on Non-Western and Precapitalist Societies», Rethinking Marxism, 14, 2002, 4, p. 90.[13] K. Marx a V. Zasulič, in MEW, Bd. 19, p. 386, tr. it. in K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, Milano, Il Saggiatore, 2008, pp. 318-319.
[14] Su questo punto cfr. M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Milano, Jaca Book, 2011.
[15] S. Tombazos, Le temps dans l’analyse économique: les catégories du temps dans le Capital, Paris, Ed. Société des saisons, 1994.
[16] Infra, p. 88.
[17] Infra, p. 88.
[18] Infra, p. 89.
[19] Per una lettura di Gramsci in questa direzione cfr. P. Thomas, The Gramscian Moment. Philosophy Hegemony and Marxism, Leiden e Boston, Brill, 2009, p. 285.
[20] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Torino, Einaudi, 1957, pp. 72-73.
[21] Ivi, p. 73.
[22] Infra, p. 279.
[23] L. Althusser, «Le ‘Piccolo’, Bertolazzi et Brecht (Notes sur un théâtre matérialiste)», in Pour Marx, La Découverte, Paris 19962, p. 138, tr. it. di F. Madonia, Editori Riuniti, Roma 19742, p. 117.
[24] F. Frosini, per litteras.
[25] Per una ricostruzione di questa multiforme corrente di pensiero cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica del presente globale, Verona, Ombrecorte, 2008.
[26] J. Derrida, Positions, Paris, Les Editions de Minuit, 1972, p. 79, tr. it. a cura di G. Sertoli, Verona, Bertani Editore, 1975, p. 91.
[27] Ivi, pp. 80-81, tr. it. cit., p. 90.
[28] Ivi, p. 77, tr. it. cit., p. 90.
[29] Ivi, p. 80, tr. it. cit., p. 92.
(16 settembre 2013)
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