Una volta era di moda ricordare che la
specialità, per non dire la superiorità femminile era legata ad alcune
cifre gentili: dedizione, sensibilità, capacità di accoglienza, indole
alla comprensione e alla compassione, primato del sentimento
sull’ambizione e così via. E mi piaceva perché confermava una mia
diversità fatta di minestre calde, camicie ben stirate, una certa
abilità nel rifare l’orlo dei calzoni, leggiadria nel preparare tavole
ben imbandite intorno alle quali ragionare insieme con amicizia, e che
non ostacolava certamente l’esprimersi tenace di competenza,
professionalità, capacità, che anzi mi pareva le esalta serro e
completassero.
Beh, non va più bene, in tempi nei quali
uomini e donne sono ridotti in schiavitù da una aberrazione della
mobilità e della moderna flessibilità che si chiama precarietà così che i
loro corpi e i loro diritti sono diventati meno che merce, robaccia da
scambiare e svendere a prezzi di liquidazione, c’è chi si preoccupa di Miss Italia.
E quando ormai in tavola c’è sempre meno da imbandire, sono calati i
consumi di carne e frutta, certi negozi ripristinano il libriccino e
anche il cartello immarcescibile: oggi non si fa credito, domani si, c’è
chi lancia improbabili invettive nei confronti di pubblicità che
mostrano mogli e mamme umiliate dalla mansione servile di mescere, fare
le porzioni, preparare la tavola per i familiari.
Devo essere stata corrotta da questi
messaggi se continuo a considerare più avvilente non avere niente da
mettere sul desco, se presto mamme italiane persuaderanno i loro
bambini a addormentarsi aspettando la cottura di quella zuppa che è sul
fuoco, in una pentola dove stanno a bollire non legumi e nemmeno coscine
di pollo, ma sassi, grigi e freddi, raccolti dalla strada.
Si devono proprio avermi contaminata se
continuo a vedere altrove pericoli, ideologici, culturali e morali
piuttosto che in un spot magari rigorosamente eterosessuale, ma
fermamente ridicolo dove un cattivo attore in disarmo parla con le
galline, che lo zapping è nato per quello in fondo, per saltarlo così
come faccio coi videomessaggi del condannato. Perché il bello del
contrasto ai persuasori occulti o espliciti è che sono tanti, spesso
risibili, ci affollano, ma annegano nel mare della comunicazione dove
gran parte di noi ha gli strumenti per orientarsi e per scegliere,
spaghetti che scuociono inesorabilmente o candidati imbroglioni,
messaggi commerciali e consigli per gli acquisti.
È da un bel po’ che guru e sacerdotesse,
satrapi e imperatrici delle dinastie Ming, ambosessi, prestati
generosamente alla mansione, quella sì servile, di tirare la tela su
reati, soprusi e crimini, in modo che appaiano vizietti che sembrano
innocenti, di additare alla riprovazione i delitti che galleggiano in
superficie per distrarre da quelli saldamente affondati nel profondo che
contaminano la società. Va a sapere, ma ormai non è più importante, se
questo istinto a svelare per nascondere, a denunciare per favorire sia
naturale, venga così, all’insaputa di chi lo manifesta o segua un
disegno.
Certo è che gli effetti speciali della
distrazione producono disastri se inducono scandalo per gli istinti
sessuali più che per quelli golpisti, per l’inclinazione
all’esibizionismo più che per l’esibizione di un’indole al crimine, più
per le affettuose amicizie che per le frequentazioni mafiose. Lo
scandalo vero dovrebbe suscitarlo il reiterato tentativo di prenderci
per i fondelli con la segnalazione disgustata degli spot offensivi per
le masse mentre sussiste il gusto di sentircisi al di sopra, con
l’invettiva di costume mentre regna il malcostume della corruzione, con
la denuncia dei corpi femminili avviliti dalla pubblicità, mentre le
donne vengono umiliate dall’impoverimento dello stato sociale che le
costringe e non per scelta a sostituirsi nei compiti di cura e
assistenza, da lavori sempre più degradati, dalla lesione dei diritti
loro e dei loro compagni, dalla perdita di futuro dei loro figli e dei
figli di tutti, da quella zuppa di sassi che non si cuoce mai.
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