Capitalismo da combattere con la stessa feroce lucidità con
il quale attacca, recuperando Marx non tanto e non solo come profeta del
comunismo, quanto come critico radicale di un’artificialità del modo di
esistere e produrre disumano, che si vorrebbe inevitabile come un destino verso
il quale deve essere, invece, affermato con forza “Ribellarsi è giusto”.
Cinque anni fa, 15 settembre 2008, la Federal Reserve,
considerato che i revisori dei conti della Barclays avevano dato parere
negativo all’acquisizione decise ,in concerto con i più influenti banchieri
USA, il fallimento della banca d’affari newyorkese Lehman and Brothers: s’innescava
così la spirale della crisi cosiddetta dei “subprime”, allargatasi poi a
macchia d’olio mettendo a repentaglio l’economia reale negli USA e in Europa,
invertendo la tendenza alla crescita e reclamando l’utilizzo, per
ricapitalizzare il sistema bancario, l’entrata in circolazione di miliardi e
miliardi di dollari erogati dallo Stato.
I media fanno rilevare oggi che nessuno dei protagonisti di
quella vicenda, tra coloro che decisero per il fallimento, è uscito dalla scena
o ha pagato un qualche prezzo per quella decisione evidentemente sbagliata, e
anzi tutti quanti occupano posti di elevata responsabilità a partire da quel
Bernenke, ancora a capo della Fed.
Tutti concordano nel ritenere quella data l’inizio della
crisi.
Avanziamo una domanda: quale crisi? Siamo di fronte,
infatti, a un meccanismo consueto nel ciclo capitalistico dominato da un
processo, anch’esso già visto e ben noto, di finanziarizzazione dell’economia:
il punto conclusivo di una lunga fase di liberismo selvaggio che, a partire
dagli anni’70 con l’esperimento cileno (mix quasi inedito tra liberismo e
dittatura militare) è andato avanti per raggiungere negli anni’80 la sua
codificazione più evidente in quello che è stato definito il
“reaganian-tachterismo” e anche nell’esasperazione dello sfruttamento fuori dal
lavoro vivo con la speculazione del debito sul debito, dalla quale derivarono i
mortali “derivati tossici” che hanno impestato l’economia a livello globale.
Nulla di particolarmente nuovo e soprattutto tutto in linea
con la ferocia oggettiva del capitalismo in quanto tale, i cui tratti possono
variare a seconda – proprio – della gestione del ciclo ma che, alla fine,
rimane immutabile nella sua adorazione al Moloch del profitto e dello
sfruttamento: un Moloch assiso sul piedestallo della ferocia delle
diseguaglianze, intesa come puro fattore della logica di crescita del profitto.
Quindi non c’è crisi vera, rappresentata da una sorta di
mistificazione ideologica, ma ristabilimento dei rapporti di forza tra le
classi, mitigato nel ciclo degli anni’70 da un rapporto con la politica diverso
da quello che poi, invece, si è affermato nei decenni successivi attraverso la
teoria della riduzione della domanda e del restringimento nel rapporto tra
politica e società.
E’ necessario mantenere i nostri canoni “storici” di
capacità di ribellione, perché semplicemente del capitalismo senza aggettivi si
tratta.
Capitalismo da combattere con la stessa feroce lucidità con
il quale attacca, recuperando Marx non tanto e non solo come profeta del
comunismo, quanto come critico radicale di un’artificialità del modo di
esistere e produrre disumano, che si vorrebbe inevitabile come un destino verso
il quale deve essere, invece, affermato con forza “Ribellarsi è giusto”.
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