La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di
lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola
zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che
non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel
2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici
dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento
eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la
Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto
crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è
una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e
dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono
provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di
divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata
nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati
finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze.
Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta
rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e
politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno
compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito
all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i
paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi
dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un
allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali
politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi,
rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati.
Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee
preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”,
secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato
la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione,
favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa
economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale,
oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato
la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese
prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso
riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già
compiuto.
C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno
commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici
dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le
cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i
costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una
ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso
l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio
pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità
europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per
accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad
altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e
credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali
squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri
dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico
del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei
prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato
dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto
di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere
regioni europee.
Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con
parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la
Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame
e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione
dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia
pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania
in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di
una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti
per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di
quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi
europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora.
Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di
irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie
del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti
sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo.
Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di
“austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”,
il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si
esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In
assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della
politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli
investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i
redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie
dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta
cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo
(Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da
Philip Arestis (University of Cambridge), Georgios Argeitis (Athens
University), Wendy Carlin (University College of London), Jesus Ferreiro
(University of the Basque Country), Giuseppe Fontana (Università del
Sannio), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati
(Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of
Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan
Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso
Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou
(Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord),
Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Malcolm Sawyer
(Leeds University), Willi Semmler (New School University, New York),
Felipe Serrano (University of the Basque Country), Engelbert Stockhammer
(Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent).
*”Il monito degli economisti” è stato pubblicato nella versione
inglese dal Financial Times il 23 settembre 2013. Per firmare il
“monito”, per contattare i promotori e per tutti i materiali si rinvia
al sito web: www.theeconomistswarning.com
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