Parliamo
di svendita imminente del Paese, ma in realtà gran parte di esso è
stato letteralmente comprato negli ultimi anni, quando la crisi e
l’assoluta incapacità di gestirla da parte del sistema politico, ha reso
conveniente l’acquisizione di centinaia di aziende e di produzioni in
mano ad imprenditori già da molti anni poco disposti ad investire e
ipnotizzati dalla rendita finanziaria. Del resto la promessa bipartisan
del sistema politico a quello produttivo era, già dalla fine degli anni
’90, quella di ridurre i diritti del lavoro per supportare una
competitività basata esclusivamente sui salari invece che sul prodotto e
sull’innovazione: una vera follia dentro una globalizzazione che vedeva
emergere Paesi con retribuzioni inarrivabili. Così è cominciato un
logoramento di immagine e di posizione commerciale che ora ha raggiunto
il suo acmè.
Da tempo la telefonia è trasmigrata ai quattro angoli del mondo,
nonostante l’Italia sia da sempre uno dei mercati più vasti e vivaci per
il settore e ora ha preso il volo anche la Telecom, l’unica superstite.
Ma ormai si tratta di pochi rimasugli di una gloria che fu schegge che
sono già in procinto di passare in altre mani come Finmeccanica
(l’Ansaldo sarà scorporata e venduta alla Siemens e altri due gruppi
americani) o Eni. Rimane ben poco prima della svendita dei beni pubblici
e della partenza di fatto degli ultimi grandi gruppi come la Fiat.
Molto spesso però sfugge la dimensione del problema e sembra di parlare
di cose astratte: invece facendo un elenco delle aziende acquisite negli
ultimi anni si può avere un’idea concreta dell’avvitamento nel quale
siamo. Entriamo anche se in maniera sommaria in questo purgatorio:
Industria Agroalimentare
- Fiorucci Salumi della spagnola Campofrio
- Bertolli, Carapelli, Olio Sasso della spagnola Sos
- Star della Galina Blanca di Barcelona
- Riso Scotti controllata dalla spagnola Ebro Food
- Parmalat, Galbani, Locatelli, Invernizzi della francese Lactalis
- Pasta Del Verde della Molinos Del Plata (Spagna- Argentina)
- Eridania controllata della francese Cristalcalco
- Ferrari industria Caseariacontrollata dalla francese Bongrain
- Boschetti Alimentaredella francese Financiere Lubersac
- Orzo Bimbo di Novartis
- Fattorie Scaldasole della francese Andros
- Gancia del magnate russo Rustam Tariko
- Pelati Antonino Russo controllata da Mitsubishi
- Chianti Gallo Nero azienda agricola comprata da un manager cinese
- Chianti Ruffino della america Constellation Brand
- Pernigotti della turca Toksoz
- Buitoni, San Pellegrino, Perugina, Motta, Antica Gelateria del Corso, Valle degli orti della Nestlè
- Peroni della sudafricana SabMille
- Algida, Confetture Santa Rosa e Riso Flora della Unilever
- Ar Alimentari della giapponese Princes
Made in Italy della moda
- Loro Piana, Bulgari, Fendi, Emilio Pucci, Acqua di Parma della francese Louis Vuitton
- Gucci, Bottega Veneta, Sergio Rossi, Brioni, Pomellato, Richard Ginori, Calzature Sergio Rossi della francese Ppr di Henry Pinault
- Valentino (e licenza per il marchio Missoni) della Mayhoola del Qatar
- Belfe, Lario, Mandarina Duck, Coccinelle della coreana E – Land
- Giada della cinese Redstone
- Sergio Tacchini, diviso fra tre gruppi cinesi
- Ferrè della Paris Group di Dubai
Industria
- Ferretti Yacht della Shandong Heawy industries
- Cifa (betoniere e macchine per l’edilizia) della cinese Zomlion
- Lamborghini, Ducati moto, Giugiaro design della Wolkswagen
- Diavia condizionatori della tedesca Webasto
- Magneti Marelli, Fiat Ferroviaria, Parizzi, Sasib Ferroviaria , Passoni & Villa della francese Alstom
- Acciaierie Lucchini della russa Severstal
- Fiat Avio, della britannica Cinven
- Cucine Berloni, controllata dalla taiwanese Hcg
- Safilo (occhiali) dell’olandese Hal Holding
- Benelli del gruppo cinese Qian Jiang
- Sps Italiana Pack System dell’americana Pfm
- Edison dell’azienda di stato francese Edf
- Edilcuoghi, Edilgresdella turca Kale group
Terziario
- Fastweb della svizzera Swisscom
- Loquendo leader nel riconoscimento vocale dell’americana Nuance
- BNL della francese BNP Paribas
- Costa Crociere dell’americana Carnival
- Standa dell’austriaca Billa
- Coin della Francese Pai Partners
- Omnitel alla britannica Vodafone
- Wind alla russa VimpelCom
A questo elenco si potrebbe aggiungere quello della aziende che di fatto non producono più in Italia e hanno licenziato in massa
Dainese: in Tunisia, circa 500 addetti; produzione quasi del tutto cessata in Italia, tranne qualche centinaio di capi.
Geox: in Brasile, Cina, Vietnam e Serbia su circa 30. 000 lavoratori meno di 2. 000 sono italiani e andranno a scomparire.
Bialetti: in Cina.
Omsa: in Serbia.
Rossignol: in Romania
Ducati Energia in India e Croazia.
Benetton: in Croazia.
Calzedonia: in Bulgaria.
Stefanel: in Croazia.
Si tratta di una lista parziale, ancorché la più completa finora
pubblicata, alla faccia dei paludati giornaloni e dei talk
addomesticati: contiene i nomi di quelle imprese più o meno conosciute
da tutti. Dal 2009 ad oggi sono state acquisite 363 aziende italiane per un controvalore di circa 47 miliardi di
euro. Non è poco, soprattutto considerando considerando la scarsità di
medie e grandi imprese del bel Paese e le future cessioni,
delocalizzazioni, trasferimenti che di fatto lasceranno solo la miriade
di micro aziende forse solo in grado di sopravvivere , ma non certo di
garantire un rilancio del Paese.
Tutto questo è stato possibile grazie alla totale mancanza di una
politica industriale, alle privatizzazioni dissennate e alle svendite
giusto per far cassa, a uno scorretto e opaco rapporto tra privato e
pubblico, ma soprattutto al teorema radice del liberismo e della
globalizzazione, anche quello rivelatosi una bugia, secondo la quale la
proprietà di un’azienda non conta. Invece conta eccome e per vari
motivi: il primo ovvio è che i profitti volano altrove, il secondo è che
il plus valore del “nome”, dell’immagine di certi prodotti, pensiamo
solo al cibo e alla moda, viene sfruttato da altri, il terzo è che tutta
la rete di attività, servizi, indotto, vengono quasi sempre assorbiti
altrove causando un’impoverimento locale e il quarto ancora più
importante è che le attività di progettazione e di ideazione, le
competenze, il sapere si trasferiscono depauperando le possibilità di
futuro. Non è difficile capirlo. E tuttavia per quasi tre decenni ormai
siamo vissuti dentro l’ossessione e l’adorazione degli “investimenti”
dall’estero, essendo del tutto incapaci di sviluppare investimenti sani
dentro il Paese. Salvo bloccarli quando l’ingresso di qualche gruppo
estero nel Paese infastidiva i potentati locali. Ci siamo lasciati
trascinare tutti dentro questo sciocchezzaio che in realtà mirava a un
altro scopo: decretare il primato dei grandi gruppi economici e
finanziari sulla politica, sugli stati e dunque sui diritti. Ci abbiamo
creduto e ora siamo a mezzo servizio come cittadini ed eterni precari
come lavoratori.
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