Una volta c’erano dinastie di
imprenditori. Vivevano a Lubecca, Amburgo, Londra, Torino, in case comode
ma austere. Dietro facciate severe si svolgevano esistenze dedite
all’accumulazione tramite il lavoro in ditte commerciali, banche,
industrie. Anche allora c’erano greggi di pecore nere, ribelli e
trasgressive, chi per la passione del gioco, chi delle donne, che
dell’assenzio, chi del rischio e dell’avventura. Qualche figliol prodigo
usciva dalla Belle Epoque per rientrare nei ranghi, o in guerra, o in
sanatori incantati, qualcuno spariva ai margini della società. In
letteratura esistono innumerevoli epopee del declino di famiglie
borghesi travolte dalla modernità, da crisi che sembravano uniche e
irripetibili, dalle tragedie e dai massacri del secolo breve, ma anche
dalle sue occasioni eroiche di riscatto degli sfruttati.
Ma chi si sarebbe immaginato che stirpi
di titani, magnati, rapaci e avidi avventurieri, amanti del rischio e
delle scommesse imprenditoriali, qualcuno visionario, qualcuno
filantropo, avrebbero lasciato il posto a semplici criminali, sciagurati
ricattatori, incapaci cialtroni, approssimativi e incompetenti perfino
nell’imbroglio, con l’indole dell’assassinio su larga scala, come
permette ormai la nostra contemporaneità, tramite veleni, cancro,
disperazione, espropriazione di diritti e lavoro.
Chi avrebbe detto che le uniche
produzioni dei nostri giorni sarebbero consistite in inquinamento,
rifiuti e polveri? Che lo scorrere di denaro sarebbe stato quello della
corruzione? Che l’indole al rischio e all’investimento si sarebbe
indirizzata solo verso il gioco d’azzardo della turbo-finanza? Che i
loro soci sarebbero diventate le mafie e i politici sleali? Che
avrebbero incaricato i loro manager unicamente della missione di
modernizzare lo sfruttamento tramite la precarietà, di aggirare le
regole e infrangere le leggi, di passare mazzette e ingannare i
cittadini, di muovere guerra alle rappresentanze, corrompendole o
isolandole? Che avrebbero protervamente tradito il loro Paese
e la sua economia e il suo popolo, evadendo le tasse, sottraendo
attività, disperdendo risorse e innovazione e derubando soldi pubblici
perseguendo parassitismo e assistenzialismo, come business? Non
l’unico, perché il vero brand è il ricatto.
E infatti Riva Acciaio ha
annunciato oggi con un comunicato la cessazione da oggi di tutte le
attività dell’azienda, esterne al perimetro gestionale dell’Ilva, e
relative a sette stabilimenti in cui sono impiegati circa 1400 persone.
Un provvedimento motivato come conseguenza del sequestro preventivo penale del Gip di Taranto su beni e conti correnti per 916 milioni di euro. Verranno quindi “lasciati in libertà” circa 1400 dipendenti di sette siti produttivi che il gruppo Riva
possiede in tutta Italia. Le aziende interessate, nel dettaglio, sono
gli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno
(Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco);
nel capoluogo ionico l’unica società è Taranto Energia, che conta 114
dipendenti. L’azienda ha già convocato per domani i sindacati di
categoria, pare prospettando problemi per il pagamento degli stipendi.
Proprio come quelli del pizzo, proprio
come la criminalità organizzata, proprio come Marchionne quando un
tribunale gli dà torto i Riva motivano la decisione come “necessaria,
poiché il provvedimento di sequestro preventivo
penale del Gip di Taranto, in base al quale vengono sottratti a Riva
Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e
vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di
conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale
ciclo di pagamenti aziendali, fa sì che non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività”.
Non ci stupisce, se i loro operai e i
cittadini dei loro siti industriali da anni subiscono il diktat: o
posto o salute, se devono subire l’affronto della scelta tra diritti e
salario, se l’opzione è tra rinuncia o delocalizzazione.
È lo spirito
del tempo, in fondo, se un Paese deve subire il ricatto di un condannato
per evasione e dei suoi soci di governo interessati a tutelare i torti
di un ceto dirigente miserabile, impegnato in tutte le guerre, quelle
mosse dal partner americano, quelle contro gli acquirenti delle loro
armi cui ora pensano di rivolgerle, ma soprattutto quella contri popoli,
in modo da tradurli in eserciti assoggettati e mobili.
Ma cere guerre sono suicide, se questi
sono i generali, che nemmeno si accorgono che forse sarebbe il momento
di salvare il mercato dal loro capitalismo e che anche sul Titanic è
possibile un ammutinamento.
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