sabato 14 settembre 2013

Ilva, l’unica soluzione è nazionalizzare di Vincenzo Comito, Il Manifesto



Se si volesse istituire un premio al peggior imprenditore (o padrone che dir si voglia) italiano, cosa che riteniamo auspicabile, bisognerebbe intanto mettersi d’accordo sui criteri di base da prendere in considerazione per la scelta. 
Ovviamente, accanto agli indicatori di natura più strettamente aziendale (qualità della strategia, risultati in termini di fatturato, utili, finanza, ecc.), bisognerebbe considerare anche i rapporti con l’ambiente di riferimento dell’azienda (prendendo in conto quelli con il territorio, con i sindacati, con le autorità pubbliche nazionali e locali, con i media), assegnando a questi ultimi un forte peso sul totale dei punti da considerare.
Si potrebbe assegnare un primo premio assoluto e poi, trovandoci in Italia, terra delle mini aziende, uno speciale per le piccole e medie imprese (i due premi potrebbero anche essere cumulabili). Bisognerebbe poi considerare, almeno per il primo anno, non solo i risultati più recenti, ma anche quelli passati. Per semplificare la scelta potremmo trascurare i personaggi già in pensione, perché altrimenti la lotta diventerebbe durissima.
I candidati al trofeo per il primo anno non mancherebbero di certo e ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta: ci vengono in mente, in prima battuta, personaggi come Marchionne, Tronchetti Provera, Ligresti, ovviamente Berlusconi, i Benetton, Riva, Ciarrapico ( avete visto in televisione l’ultima trasmissione di Presa Diretta su questo ultimo personaggio)? Ma probabilmente abbiamo dimenticato qualcuno. Dovremmo in effetti considerare gran parte del gotha (si fa per dire) dell’industria italiana.
Ma dopo una lotta serrata (Berlusconi sarebbe evidentemente da considerare fuori concorso), vista anche la mossa recente del primo che ha cercato di mandare a casa 1.400 dipendenti in una volta sola, la palma dovrebbe andare senza dubbio all’ex (speriamo) magnate dell’acciaio, anche per le molto più grandi dimensioni del gruppo Riva-Fire; riconosciamo peraltro che le imprese di Ligresti e Ciarrapico non sono certo da sottovalutare, ricordando anche che i due sono anche stati sulla scena vittoriosamente per molti decenni. A Marchionne potrebbe essere comunque attribuito il gran premio speciale della giuria per la carriera.
 
Cosa sta veramente succedendo
E veniamo ai fatti degli ultimi giorni. Come è ampiamente noto, nel maggio del 2013 la gip di Taranto, Patrizia Todisco, ha emesso un ordine di sequestro per 8 miliardi e cento milioni di euro nei confronti della famiglia Riva, come sanzione per gli illeciti profitti conseguiti negli anni con il mancato rispetto delle norme ambientali in essere.
Dopo un primo sequestro nelle scorse settimane per più di un miliardo, nei giorni scorsi la guardia di finanza di Taranto ne ha effettuato un altro per 916 milioni. A seguito di questa azione il gruppo Riva ha annunciato la cessazione di tutte le attività facenti capo alla Riva Acciaio, con la conseguente dichiarazione di oltre 1.400 esuberi. Le attività interessate (sette stabilimenti e due società di sevizi) non rientrano nel perimetro gestionale dell’Ilva, già da tempo commissariata. Si tratta invece di diversi impianti di produzione elettrosiderurgica, tutti dislocati nel Nord Italia e che costituiscono in qualche modo il nucleo storico delle produzioni da cui i Riva sono partiti per poi prendere in mano anche gli stabilimenti tedeschi e l’Ilva.
Ci si può chiedere il perché della mossa di Riva, che può sembrare per alcuni versi disperata e per altri senza senso. In effetti, con l’ultimo sequestro, i magistrati hanno anche individuato un custode giudiziario, Mario Tagarelli. Apparentemente, se abbiamo capito bene, spetterà a lui e non ai Riva di decidere sulla sorte degli stabilimenti e dei suoi dipendenti.
Ma allora perché tutta questa agitazione? Il fatto è che, plausibilmente, con le sue mosse, Riva cerca di mobilitare, approfittando della confusione scatenata nell’opinione pubblica, qualche membro dell’attuale governo a lui amico (non ne mancano certo nell’attuale compagine ministeriale, così come non ne mancavano certo nei governi precedenti a partire dall’ineffabile Clini, per non risalire allo stesso Berlusconi); in particolare, egli spera che il dossier Riva-Ilva sia sottratto quanto più possibile alla magistratura e affidato alla cura amorevole dei politici. Chissà così che, alla fine, i vecchi proprietari non riescano ancora ad inviare all’estero qualche soldo. In effetti si sono subito sentite parole infuocate di sostegno ai Riva da parte della Federacciai, della Confindustria, della Lega, di membri del Pdl, di alcuni commentatori televisivi e così via. Vediamo cosa succederà nei prossimi giorni. Ma le prime dichiarazioni di Zanonato, anima tormentata, non ci sembrano molto confortanti.
 
Cosa bisognerebbe fare
Al momento in cui, grazie alla magistratura, è scoppiato lo scandalo Ilva, si è pensato che l’unico problema fosse quello ambientale, certamente per molti versi comunque molto grave. I Riva hanno cercato di contrapporre, con la complicità anche di una parte almeno del governo, della stampa e del sindacato, la questione ambientale a quella del lavoro. Poi si è scoperto che nel mondo esistono tanti impianti che contemperano i due temi e che le tecnologie già oggi disponibili permettono quasi di fare dei miracoli in proposito.
Al momento sembra che i lavori di messa a norma di Taranto procedano in qualche modo, ma non ci è del tutto chiaro da dove l’attuale commissario riuscirà a prendere tutti i soldi necessari per portarli a compimento. Si era parlato di almeno quattro miliardi di euro.
Comunque, si è poi scoperto che, dietro il problema ambientale, se ne nascondeva uno altrettanto grave costituito dalla situazione del mercato e della progressiva incapacità dei Riva di tener testa a dei concorrenti sempre più agguerriti e sempre più grandi.
Fusioni, arrivo delle grandi imprese asiatiche, integrazione a monte con il business delle miniere, mondializzazione della presenza commerciale e produttiva, chiusura degli impianti non economici, sono alcune delle mosse che i grandi gruppi internazionali, mobilitando tra l’altro grandi capitali, stanno perseguendo per cercare di sopravvivere. La Riva Fire è diventata ormai una presenza trascurabile anche nel solo mercato europeo.
La scelta del commissariamento da parte del governo, che ora da più parti, tra l’altro anche dalla Fiom, si chiede di estendere alla Riva Acciai, rappresenta da questo punto di vista, in ogni caso, solo una misura di emergenza. Bisogna pensare ad un nuovo collocamento strategico se vogliamo che sopravviva. Su questo fronte il commissario non può fare molto, assorbito come è dai problemi di tutti i giorni e comunque senza un mandato adeguato.
Siamo da tempo convinti che l’unica soluzione perché la società stia a galla durevolmente è una nazionalizzazione dell’intero perimetro aziendale; ad essa dovrebbe seguire rapidamente, un ripensamento del collocamento e della struttura proprietaria ed organizzativa dell’intera siderurgia italiana (non è in difficoltà solo l’Ilva), con l’apertura di trattative per arrivare ad un accordo di integrazione con un altro grande gruppo, plausibilmente asiatico (coreano o cinese che sia). Fuori da tale soluzione, nulla salus, almeno ci sembra.

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