Esce
oggi il nuovo numero di Micromega che non risparmia critiche al Governo
Monti e dibatte sulle prospettive di una vera alternativa ai tecnici.
Pubblichiamo uno stralcio del saggio dell'economista Maurizio Franzini.
La
pubblicazione delle retribuzioni – spesso stratosferiche – dei
‘tecnici’ del nuovo governo non ha suscitato la stessa, unanime,
indignazione che viene solitamente riservata alla casta dei politici e
ai loro privilegi. Per quale motivo? Perché sono retribuzioni, si è
detto, provenienti dalle loro professioni e dunque dal libero mercato.
Ma è giusto che le ricchezze acquisite nel settore privato siano
indiscutibili? Sono davvero sempre frutto di merito e competenza?
Da qualche tempo, nel dibattito pubblico, si parla molto, certamente
più che in passato, di disuguaglianze economiche e di equità. Si tratta
di una novità positiva, ma il rischio che si corre è che l’argomento
venga trattato concedendo troppo alle emozioni e troppo poco
all’analisi. Questo sembra essere accaduto anche in occasione della
pubblicazione dei redditi percepiti dai ministri del governo Monti. Di
fronte a quella lista – che contempla redditi elevatissimi all’interno
di una distribuzione che, però, probabilmente farebbe assumere valori
molto alti ai tradizionali indici di disuguaglianza – vi è stato chi ha
pronunciato parole di indignazione e chi, invece, non ha nascosto la
propria ammirazione nei confronti dei più ricchi.
Di argomenti anche soltanto vagamente analitici, a sostegno dell’una o dell’altra posizione ne sono circolati pochi e spesso sono apparsi deboli quanto può esserlo la riproposizione di qualche logoro luogo comune. In realtà, sulla ricchezza, sui meccanismi che la generano e sugli effetti che essa produce, molto vi sarebbe da riflettere perché qui, probabilmente, si nasconde un’importante chiave di lettura del capitalismo contemporaneo e delle sue trasformazioni. In particolare, è interessante chiedersi che caratteristiche abbiano i mercati (intesi in senso lato) che permettono retribuzioni non altrimenti definibili che stratosferiche.
Sorprendentemente, o forse no, quanti giustificano quelle stratosferiche retribuzioni lo fanno accontentandosi di richiamare che esse si sono formate in liberi mercati, come tali non facilmente sindacabili. Non ci si chiede, però, se quei mercati siano gli stessi mercati ai quali la teoria economica riconosce la capacità di assicurare l’efficienza e di premiare il merito, anche se questo va inteso nel senso piuttosto ristretto di «merito di mercato».
Tale omissione può derivare da una limitata consapevolezza del problema oppure dalla convinzione che non vi siano ragioni per porselo. Ma se così fosse si tratterebbe di una convinzione che rischia di sgretolarsi con i primi passi di un’analisi appena un po’ approfondita.
Nelle pagine che seguono presenterò qualche argomento a sostegno di queste affermazioni soffermandomi, anche se in modo necessariamente superficiale, sui meccanismi della ricchezza e sul loro rapporto con i mercati. Ciò consentirà anche di mettere in luce il ritardo accumulato dalla ricerca economica nell’analisi di alcuni dei mercati affermatisi negli ultimi decenni, che sembrano discostarsi non poco da quei prototipi ideali sui quali praticamente tutta la letteratura economica è stata costruita.
Parlando di meccanismi della ricchezza, la prima questione riguarda gli effetti che essa produce, una volta che si sia formata, sull’economia e sulla società. Un onorato luogo comune, che più volte abbiamo sentito riecheggiare anche di recente, è quello del cosiddetto effetto del trickle down. Si tratta dell’idea secondo cui i redditi elevatissimi e molto concentrati tenderanno a diffondersi ad altri e, quindi, a tradursi in benefici anche per il resto della società e in particolare per i più poveri. I difensori della ricchezza sono convinti che questo effetto sia certo e consistente: permettere ai ricchi di arricchirsi sarebbe, quindi, un vantaggio anche per i poveri.
Questo effetto è stato «inventato» moltissimo tempo fa, se è vero che esso fu oggetto di critiche da parte del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, già nella campagna elettorale del 1896. Quella critica, di 115 ani fa, non si basava, di certo, su solide analisi empiriche. Oggi disponiamo di queste analisi e il loro responso non è molto favorevole al trickle down. Secondo un recente ed accurato studio 1 occorrono circa 13 anni perché un’eventuale redistribuzione a vantaggio del 10 per cento più ricco della popolazione venga annullata grazie al recupero della quota da parte del restante 90 per cento.
Più in generale si può sostenere che non vi sono solidi argomenti teorici a favore del trickle down e forse anche questo aiuta a comprendere perché di esso non si trovino troppe tracce nella realtà. Un’ipotesi più plausibile è che il reddito aggiuntivo dei ricchi finisca per circolare prevalentemente tra gli stessi ricchi e non esca, se non con grande fatica e lentezza, da questo circuito. Dunque, se ci si preoccupa davvero di non far crescere le disuguaglianze nel tempo – come l’enfasi posta sul trickle down lascia pensare – la strada migliore non sembra quella di favorire la concentrazione dei redditi.
La discussione che è seguita alla pubblicazione dei redditi dei ministri del governo Monti ha ospitato, tra gli altri, un argomento che, sebbene non coincida con il tradizionale trickle down, gli è piuttosto affine, nel senso che anch’esso ipotizza un vantaggio (almeno potenziale) per i meno ricchi derivante dalla concentrazione della ricchezza. Si tratta del fatto che i percettori di quei redditi elevatissimi pagano un ammontare corrispondentemente elevatissimo di tasse e questo potrebbe consentire di accrescere la spesa pubblica con vantaggio, appunto, per tutti. Senza discutere dell’effettiva capacità redistributiva della spesa sociale e pubblica così attivata, si può osservare che l’argomento – se non vuole provare soltanto l’onestà tributaria di chi su quei redditi ha pagato tasse elevate, che pure non è da noi cosa irrilevante – non ha gambe solide.
Tutto dipende da quale sia l’implicita ipotesi alternativa: si tratta di una diversa distribuzione, nel mercato, di quegli stessi redditi oppure del loro annullamento? Si assume, in altri termini, che l’attività che ha dato luogo a un reddito singolo così elevato potrebbe essere sostituita, anche se imperfettamente, da quella di numerosi altri individui oppure che questo non sia possibile e, quindi, che quell’attività è «non replicabile»?
Il merito speciale ed esclusivo dei ricchi nel far affluire risorse nelle casse dello Stato sarebbe comprovato solo nel secondo caso, che è quello più di frequente evocato, anche se silenziosamente. In realtà l’altro caso potrebbe verificarsi almeno altrettanto spesso, con la conseguenza che, per effetto di cambiamenti nelle regole di mercato, invece di un unico ricchissimo contribuente potremmo averne tanti di più modesto lignaggio. Le entrate complessive nelle casse dello Stato non sarebbero granché inferiori, soprattutto in un sistema tributario poco progressivo com’è quello vigente e, d’altro canto, se la distribuzione iniziale dei redditi fosse più egualitaria i trasferimenti pubblici – e quindi le imposte – necessari per raggiungere il medesimo assetto distributivo finale sarebbero, ovviamente, inferiori.
Appaiono, quindi, piuttosto deboli questi tentativi di giustificare la ricchezza sulla base delle sue ricadute sociali e dei vantaggi che, rispetto a plausibili alternative, ne deriverebbero anche per i più poveri. Eppure è forte la tendenza a considerare le grandi ricchezze essenziali per migliorare il benessere sociale. (...)
Queste considerazioni, che dovrebbero essere arricchite e approfondite, forse sono sufficienti a mostrare quanto poco accettabile sia l’idea che il valore sociale sia garantito dalla presenza, in qualsivoglia mercato, di qualcuno che sia disposto a pagare utilizzando risorse proprie e, quindi, che le ricchezze costituite in questo modo non debbano essere altrimenti valutate. I problemi appaiono decisamente più complicati e per dipanarli occorre un rinnovato sforzo di analisi che porti a classificare e distinguere casi che ora vengono impropriamente accomunati.
Naturalmente coloro che si arricchiscono nel rispetto delle regole del gioco non portano alcuna responsabilità e certamente, come è stato ripetutamente detto, possono avere molteplici meriti. Ma il problema è proprio quello di stabilire di che meriti si tratti e come debbano essere remunerati, una volta chiarito che essi spesso non coincidono con i meriti che la teoria economica associa alla creazione di valore sociale e ai quali si può riconoscere, appunto, la qualifica di «meriti di mercato». I difensori disinteressati delle ricchezze dovrebbero cercare di dare una giustificazione esplicita a questi meriti oppure riconoscere che spesso dietro le altissime retribuzioni non vi sono altissimi meriti e che proseguire su questa strada non è giustificato.
Di argomenti anche soltanto vagamente analitici, a sostegno dell’una o dell’altra posizione ne sono circolati pochi e spesso sono apparsi deboli quanto può esserlo la riproposizione di qualche logoro luogo comune. In realtà, sulla ricchezza, sui meccanismi che la generano e sugli effetti che essa produce, molto vi sarebbe da riflettere perché qui, probabilmente, si nasconde un’importante chiave di lettura del capitalismo contemporaneo e delle sue trasformazioni. In particolare, è interessante chiedersi che caratteristiche abbiano i mercati (intesi in senso lato) che permettono retribuzioni non altrimenti definibili che stratosferiche.
Sorprendentemente, o forse no, quanti giustificano quelle stratosferiche retribuzioni lo fanno accontentandosi di richiamare che esse si sono formate in liberi mercati, come tali non facilmente sindacabili. Non ci si chiede, però, se quei mercati siano gli stessi mercati ai quali la teoria economica riconosce la capacità di assicurare l’efficienza e di premiare il merito, anche se questo va inteso nel senso piuttosto ristretto di «merito di mercato».
Tale omissione può derivare da una limitata consapevolezza del problema oppure dalla convinzione che non vi siano ragioni per porselo. Ma se così fosse si tratterebbe di una convinzione che rischia di sgretolarsi con i primi passi di un’analisi appena un po’ approfondita.
Nelle pagine che seguono presenterò qualche argomento a sostegno di queste affermazioni soffermandomi, anche se in modo necessariamente superficiale, sui meccanismi della ricchezza e sul loro rapporto con i mercati. Ciò consentirà anche di mettere in luce il ritardo accumulato dalla ricerca economica nell’analisi di alcuni dei mercati affermatisi negli ultimi decenni, che sembrano discostarsi non poco da quei prototipi ideali sui quali praticamente tutta la letteratura economica è stata costruita.
Parlando di meccanismi della ricchezza, la prima questione riguarda gli effetti che essa produce, una volta che si sia formata, sull’economia e sulla società. Un onorato luogo comune, che più volte abbiamo sentito riecheggiare anche di recente, è quello del cosiddetto effetto del trickle down. Si tratta dell’idea secondo cui i redditi elevatissimi e molto concentrati tenderanno a diffondersi ad altri e, quindi, a tradursi in benefici anche per il resto della società e in particolare per i più poveri. I difensori della ricchezza sono convinti che questo effetto sia certo e consistente: permettere ai ricchi di arricchirsi sarebbe, quindi, un vantaggio anche per i poveri.
Questo effetto è stato «inventato» moltissimo tempo fa, se è vero che esso fu oggetto di critiche da parte del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, già nella campagna elettorale del 1896. Quella critica, di 115 ani fa, non si basava, di certo, su solide analisi empiriche. Oggi disponiamo di queste analisi e il loro responso non è molto favorevole al trickle down. Secondo un recente ed accurato studio 1 occorrono circa 13 anni perché un’eventuale redistribuzione a vantaggio del 10 per cento più ricco della popolazione venga annullata grazie al recupero della quota da parte del restante 90 per cento.
Più in generale si può sostenere che non vi sono solidi argomenti teorici a favore del trickle down e forse anche questo aiuta a comprendere perché di esso non si trovino troppe tracce nella realtà. Un’ipotesi più plausibile è che il reddito aggiuntivo dei ricchi finisca per circolare prevalentemente tra gli stessi ricchi e non esca, se non con grande fatica e lentezza, da questo circuito. Dunque, se ci si preoccupa davvero di non far crescere le disuguaglianze nel tempo – come l’enfasi posta sul trickle down lascia pensare – la strada migliore non sembra quella di favorire la concentrazione dei redditi.
La discussione che è seguita alla pubblicazione dei redditi dei ministri del governo Monti ha ospitato, tra gli altri, un argomento che, sebbene non coincida con il tradizionale trickle down, gli è piuttosto affine, nel senso che anch’esso ipotizza un vantaggio (almeno potenziale) per i meno ricchi derivante dalla concentrazione della ricchezza. Si tratta del fatto che i percettori di quei redditi elevatissimi pagano un ammontare corrispondentemente elevatissimo di tasse e questo potrebbe consentire di accrescere la spesa pubblica con vantaggio, appunto, per tutti. Senza discutere dell’effettiva capacità redistributiva della spesa sociale e pubblica così attivata, si può osservare che l’argomento – se non vuole provare soltanto l’onestà tributaria di chi su quei redditi ha pagato tasse elevate, che pure non è da noi cosa irrilevante – non ha gambe solide.
Tutto dipende da quale sia l’implicita ipotesi alternativa: si tratta di una diversa distribuzione, nel mercato, di quegli stessi redditi oppure del loro annullamento? Si assume, in altri termini, che l’attività che ha dato luogo a un reddito singolo così elevato potrebbe essere sostituita, anche se imperfettamente, da quella di numerosi altri individui oppure che questo non sia possibile e, quindi, che quell’attività è «non replicabile»?
Il merito speciale ed esclusivo dei ricchi nel far affluire risorse nelle casse dello Stato sarebbe comprovato solo nel secondo caso, che è quello più di frequente evocato, anche se silenziosamente. In realtà l’altro caso potrebbe verificarsi almeno altrettanto spesso, con la conseguenza che, per effetto di cambiamenti nelle regole di mercato, invece di un unico ricchissimo contribuente potremmo averne tanti di più modesto lignaggio. Le entrate complessive nelle casse dello Stato non sarebbero granché inferiori, soprattutto in un sistema tributario poco progressivo com’è quello vigente e, d’altro canto, se la distribuzione iniziale dei redditi fosse più egualitaria i trasferimenti pubblici – e quindi le imposte – necessari per raggiungere il medesimo assetto distributivo finale sarebbero, ovviamente, inferiori.
Appaiono, quindi, piuttosto deboli questi tentativi di giustificare la ricchezza sulla base delle sue ricadute sociali e dei vantaggi che, rispetto a plausibili alternative, ne deriverebbero anche per i più poveri. Eppure è forte la tendenza a considerare le grandi ricchezze essenziali per migliorare il benessere sociale. (...)
Queste considerazioni, che dovrebbero essere arricchite e approfondite, forse sono sufficienti a mostrare quanto poco accettabile sia l’idea che il valore sociale sia garantito dalla presenza, in qualsivoglia mercato, di qualcuno che sia disposto a pagare utilizzando risorse proprie e, quindi, che le ricchezze costituite in questo modo non debbano essere altrimenti valutate. I problemi appaiono decisamente più complicati e per dipanarli occorre un rinnovato sforzo di analisi che porti a classificare e distinguere casi che ora vengono impropriamente accomunati.
Naturalmente coloro che si arricchiscono nel rispetto delle regole del gioco non portano alcuna responsabilità e certamente, come è stato ripetutamente detto, possono avere molteplici meriti. Ma il problema è proprio quello di stabilire di che meriti si tratti e come debbano essere remunerati, una volta chiarito che essi spesso non coincidono con i meriti che la teoria economica associa alla creazione di valore sociale e ai quali si può riconoscere, appunto, la qualifica di «meriti di mercato». I difensori disinteressati delle ricchezze dovrebbero cercare di dare una giustificazione esplicita a questi meriti oppure riconoscere che spesso dietro le altissime retribuzioni non vi sono altissimi meriti e che proseguire su questa strada non è giustificato.
1 D. Andrews, C. Jencks, A. Leigh, «Do top incomes lift all boats?»,
The B.E. Journal of Economic Analysis and Policy, 11, 1, 2011,
(Contributions), Article 6.
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