Moody’s avverte: taglieremo il rating alle prime d’America
Ci
sono investitori che quando sentono le autorità assumere toni
tranquillizzanti cominciano a preoccuparsi seriamente. E difficilmente
siamo stati così sommersi da frasi rassicuranti come in queste
settimane. L’ultima in ordine di tempo è stata ieri Christine Lagarde,
direttrice di quel Fondo monetario internazionale che non è fin qui
riuscita a convincere i paesi Brics a mettere più soldi per l’eventuale
«salvataggio» dell’Europa: «vediamo segnali di disgelo in Europa, con
alcuni segni incoraggianti di stabilizzazione della finanza».
Nemmeno a farlo apposta, nelle stesse ore si è venuto a sapere che Moody’s, una delle tre sorelle che dettano legge nel rating, sarebbe in procinto di annunciare – entro metà maggio – un abbassamento del «voto» per le 17 maggiori banche americane. «Nanerottoli» come Goldman Sachs, Citigroup, Bank of America, Jp Morgan Chase e Morgan Stanley starebbero per subire declassamenti di due o tre «notch» (gradini). Standard&Poor’s se l’è invece presa con le banche italiane, per le quali vede un periodo di «bassa redditività» lungo diversi anni. Come «stabilizzazione» non c’è male…
Cosa comporta un downgrading delle principali banche del mondo? Né più né meno che la riapertura ufficiale della crisi finanziaria, che era stata fin qui tamponata -negli Usa come in Europa – grazie a valanghe di denaro pubblico riversate nelle banche private (il «socialismo per ricchi», le aveva definite Joseph Stiglitz), in forma diretta o indiretta (tramite le banche centrali). Com’è noto – anche se rapidamente messo nel dimenticatoio – questa azione ha dissestato i conti pubblici di quasi tutti gli stati, innescando quel «consolidamento di bilancio» che – per esempio Tremonti prima, Monti ora – ci stanno facendo pagare a caro prezzo.
Basterebbe questo a preoccuparci, ma è solo la prima parte del problema. Un «taglio» di quella portata sconvolgerebbe in un attimo il mercato dei «derivati» – prodotti finanziari che solo in linea teorica hanno una «garanzia sottostante» (famosa quella dei mutui subprime) – che sono in realtà un vero e proprio sistema monetario «ombra» creato e controllato da quelle stesse banche d’affari americane (Goldman Sachs in testa) oggi sotto esame. Le ultime stime sulle dimensioni di questo mercato parlano di oltre 600mila miliardi di dollari, circa 10 volte il Pil mondiale del 2010 (60.600 miliardi). Al suo interno vigono regole «automatiche» di fuga verso istituzioni più sicure – come avviene anche per i fondi comuni di investimento – che si traducono in abbandono improvviso di certe posizioni. Ricordate il caso della banca Lehmann Brothers, nel 2008? Scomparve praticamente dal giorno alla mattina, aprendo la porta alla più grave recessione del dopoguerra.
Bene. Come reagiscono gli «investitori» d’oltreoceano a questa situazione? Guardano l’Europa, naturalmente. E sperano che esploda prima)e invece) degli Stati uniti. MagazineMoney, per esempio, consiglia «stare alla larga dai Piigs» e «concentratevi invece sulle economie sane del Nord Europa». Perché «la crisi finanziaria europea è ben lontana dall’essere conclusa» (chi glielo dice ora a Monti?), e «la riduzione dei debiti sovrani potrebbe richiedere anni». Ai mercati, si sa, non piace aspettare…
I più esperti tra voi si staranno dicendo: «ma così la crisi è tornata al punto di partenza». Esatto. Ma nel frattempo sono state bruciate le «riserve» di grasso (l’equilibrio di bilancio degli stati che avevano un sistema di welfare); ora non c’è quasi più nulla, tranne forse in Germania, Francia, Olanda…
Tornano perciò come un incubo le frasi rassicuranti. Hank Paulson, ministro del Tesoro con Bush jr., accolse i primi segnali dai subprime con un «i problemi sembrano essere contenuti». Ben Bernanke, presidente della Fed, un attimo prima del botto dell’agosto 2007, disse «non vediamo pesanti conseguenze per le banche». Due mesi dopo le banche non si prestavano più soldi fra loro, figuriamoci alla clientela normale. Ma qualcosa, da allora, in effetti è cambiato. Al posto dei subprime ora ci sono i «debiti sovrani». La nostra vita, insomma.
Nemmeno a farlo apposta, nelle stesse ore si è venuto a sapere che Moody’s, una delle tre sorelle che dettano legge nel rating, sarebbe in procinto di annunciare – entro metà maggio – un abbassamento del «voto» per le 17 maggiori banche americane. «Nanerottoli» come Goldman Sachs, Citigroup, Bank of America, Jp Morgan Chase e Morgan Stanley starebbero per subire declassamenti di due o tre «notch» (gradini). Standard&Poor’s se l’è invece presa con le banche italiane, per le quali vede un periodo di «bassa redditività» lungo diversi anni. Come «stabilizzazione» non c’è male…
Cosa comporta un downgrading delle principali banche del mondo? Né più né meno che la riapertura ufficiale della crisi finanziaria, che era stata fin qui tamponata -negli Usa come in Europa – grazie a valanghe di denaro pubblico riversate nelle banche private (il «socialismo per ricchi», le aveva definite Joseph Stiglitz), in forma diretta o indiretta (tramite le banche centrali). Com’è noto – anche se rapidamente messo nel dimenticatoio – questa azione ha dissestato i conti pubblici di quasi tutti gli stati, innescando quel «consolidamento di bilancio» che – per esempio Tremonti prima, Monti ora – ci stanno facendo pagare a caro prezzo.
Basterebbe questo a preoccuparci, ma è solo la prima parte del problema. Un «taglio» di quella portata sconvolgerebbe in un attimo il mercato dei «derivati» – prodotti finanziari che solo in linea teorica hanno una «garanzia sottostante» (famosa quella dei mutui subprime) – che sono in realtà un vero e proprio sistema monetario «ombra» creato e controllato da quelle stesse banche d’affari americane (Goldman Sachs in testa) oggi sotto esame. Le ultime stime sulle dimensioni di questo mercato parlano di oltre 600mila miliardi di dollari, circa 10 volte il Pil mondiale del 2010 (60.600 miliardi). Al suo interno vigono regole «automatiche» di fuga verso istituzioni più sicure – come avviene anche per i fondi comuni di investimento – che si traducono in abbandono improvviso di certe posizioni. Ricordate il caso della banca Lehmann Brothers, nel 2008? Scomparve praticamente dal giorno alla mattina, aprendo la porta alla più grave recessione del dopoguerra.
Bene. Come reagiscono gli «investitori» d’oltreoceano a questa situazione? Guardano l’Europa, naturalmente. E sperano che esploda prima)e invece) degli Stati uniti. MagazineMoney, per esempio, consiglia «stare alla larga dai Piigs» e «concentratevi invece sulle economie sane del Nord Europa». Perché «la crisi finanziaria europea è ben lontana dall’essere conclusa» (chi glielo dice ora a Monti?), e «la riduzione dei debiti sovrani potrebbe richiedere anni». Ai mercati, si sa, non piace aspettare…
I più esperti tra voi si staranno dicendo: «ma così la crisi è tornata al punto di partenza». Esatto. Ma nel frattempo sono state bruciate le «riserve» di grasso (l’equilibrio di bilancio degli stati che avevano un sistema di welfare); ora non c’è quasi più nulla, tranne forse in Germania, Francia, Olanda…
Tornano perciò come un incubo le frasi rassicuranti. Hank Paulson, ministro del Tesoro con Bush jr., accolse i primi segnali dai subprime con un «i problemi sembrano essere contenuti». Ben Bernanke, presidente della Fed, un attimo prima del botto dell’agosto 2007, disse «non vediamo pesanti conseguenze per le banche». Due mesi dopo le banche non si prestavano più soldi fra loro, figuriamoci alla clientela normale. Ma qualcosa, da allora, in effetti è cambiato. Al posto dei subprime ora ci sono i «debiti sovrani». La nostra vita, insomma.
Francesco Piccioni - il manifesto
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