domenica 29 settembre 2013

Modello Syriza per gli anti-austerità, proposta per un'«Altra Europa»




di Roberto Ciccarelli, Il Manifesto
 
Una lista di sinistra, transnazionale ed euromediterranea, fuori dal perimetro dell'austerità da presentare alle elezioni europee previste nella prossima primavera, tra otto mesi. È uno degli obiettivi esposti ieri durante l'incontro «Europa che fare?» alla Casa delle Donne di Roma da una rete di associazioni che hanno già partecipato all'AlterSummit di Atene e al forum sociale di Tunisi. Presenti, tra gli altri, Arci, Alba, Cobas, Altramente, European Alternatives, Transform, Global Project, esponenti della Fiom.
Si sono incontrati ad una settimana dal voto in Germania che ha visto il trionfo di Angela Merkel (Cdu) e la probabile santuarizzazione delle «larghe intese» con i socialdemocratici (Spd) che torneranno a indossare il vestito dell'austerità. Dicono per renderlo più presentabile. Sono in molti invece a sospettare che sarà ugualmente paternalistico in patria e autoritario fuori.

Il progetto presentato ieri a grandi linee dovrebbe raccogliere l'appello di Alexis Tsipras, presidente di Syriza, che veleggia verso il 30% dei consensi in Grecia. Tsipras ha rilanciato l'idea di una sinistra distinta dai socialisti europei e dai loro alleati che si candidano a co-gestire l'austerità con i democristiani tedeschi e la Troika. I promotori parteciperanno alla manifestazione «La via maestra» per l'attuazione della Costituzione del 12 ottobre, promossa da Stefano Rodotà e da Maurizio Landini (Fiom). Ieri in sala c'era anche chi parteciperà a quella promossa dai sindacati di base e dai movimenti per il diritto all'abitare il 18 ottobre e sfileranno anche il 19 ottobre a Roma nel corteo «Costruiamo l'assedio all'austerity e alla precarietà». Argomento che è stato discusso dai movimenti interessati in un'assemblea nazionale alla Sapienza di Roma.

Nel giorno delle dimissioni annunciate dei ministri Pdl dal governo delle larghe intese, e in attesa di un nuovo esecutivo, alcune carte predisposte sul tavolo fino ad oggi potrebbero cambiare. Le europee potrebbe intrecciarsi con le elezioni politiche in Italia, ad esempio. Mentre ciò che si addensa a «sinistra», e non si riconosce nel Movimento 5 Stelle di Grillo, si troverebbe nuovamente scoperto e impotente davanti al prevedibile ritorno del populismo e dell'antipolitica.

I promotori dell'iniziativa sono consapevoli che non basta una sommatoria di sigle e partitini per avviare un necessario, ma non sufficiente, processo di ricomposizione. In questa situazione avrebbe risultati ancora più umilianti di «Rivoluzione Civile».
Dal 2008 si sono susseguite crisi, rotture e autocombustioni che hanno annientato la rappresentanza parlamentare, diviso o silenziato fino a questo momento un movimento anti-austerità. Il riferimento a Syriza potrebbe essere anche utile, anche se bisogna considerare le differenze. Perché il partito di Tsipras è il frutto della sintesi di sedici realtà diverse, di un duro percorso di opposizione alle politiche di austerità, al capitalismo declinato nella modalità neo-liberista, oltre che ad un attento studio della crisi del «ceto medio», come delle classi lavoratrici. Tentativi in questo senso si registrano in Spagna o in Portogallo. In Italia, invece, non esiste nulla di paragonabile. «Sinistra» resta un significante vuoto.

Per evitare la dispersione, e il rumore, non basteranno probabilmente i tradizionali dogmi della sinistra italiana sul lavoro dipendente, sull'idea della «governabilità» o sulla concertazione. I promotori di «Europa che fare?» propongono di aderire a un'alleanza tra le sinistre dei paesi del Sud d'Europa. I soggetti di riferimento potrebbero essere i giovani e i lavoratori indipendenti (in primis i precari) e tutti coloro che sono fuori dalla Costituzione europea e senza diritti.
I punti della «piattaforma» che sarà proposta a partire dalla prossima settimana sarà il «lavoro» e il «reddito» (minimo o di base). 

“Nazisti criminali”, decapitata Alba Dorata. E adesso? di Marco Santopadre, Contropiano.org


“Nazisti criminali”, decapitata Alba Dorata. E adesso?
Con una maxioperazione di polizia senza precedenti, ieri all’alba sono scattati in tutta la Grecia gli arresti di decine tra parlamentari, dirigenti e militanti del movimento neonazista ellenico Chrysi Avgi. Ieri sera erano 20 gli estremisti di destra finiti in manette, e una quindicina – ma presto potrebbero scattare altri mandati di cattura – sono ancora ricercati attivamente. Anche alcuni agenti di polizia sono caduti nella retata dei loro colleghi, compresa una sergente trovata in possesso di pistole, razzi, revolver, coltelli, tirapugni, taser, dinamite e materiale del partito che utilizza la svastica come simbolo. Anche in casa del ‘duce’ e fondatore di Alba Dorata, il 56enne Nikolaos Michaloliakos, sono state trovate due pistole ed un fucile.

Quella scattata contro il movimento che lo scorso anno ha ottenuto il 7% dei voti e che le politiche di austerità e massacro sociale della troika hanno portato nei sondaggi dei giorni scorsi al 13% è stata un’operazione in grande stile, decisa da alcuni magistrati dell’Aero Pago, la Corte Suprema ellenica, che ha improvvisamente cambiato atteggiamento nei confronti delle scorribande violente dei “chrisavgites”. Per anni lasciati fare contro immigrati, sindacalisti, omosessuali, attivisti di sinistra e artisti, perché utile valvola di sfogo per una popolazione massacrata da tagli, licenziamenti e privatizzazioni e che avrebbe potuto orientare la propria rabbia contro banche, sistema politico e imprenditori arraffoni. D'altronde ai discorsi di fuoco sulla ‘difesa della patria’ i 18 parlamentari di Alba Dorata hanno sempre associato un’estrema compatibilità con le politiche lacrime e sangue degli esecutivi telecomandati da Bruxelles e Francoforte. Basta guardare gli atti parlamentari, ed emerge un comportamento dei ‘ribelli’ neonazisti sempre a favore degli armatori, dei grandi capitalisti, degli evasori fiscali, di coloro che hanno affondato la Grecia e ora stanno facendo pagare il conto agli strati più bassi della popolazione.

Per questo, per anni, gli squadristi di Michaloliakos hanno agito indisturbati in particolare contro il capro espiatorio per eccellenza, gli immigrati, che sono stati aggrediti, picchiati, a volte uccisi. E’ significativo che molti media italiani nei giorni scorsi abbiano parlato della ‘prima vittima di Alba Dorata’ riferendosi al rapper antifascista Pavlos Fyssas, dimenticando le vittime precedenti. E’ stato apparentemente proprio l’omicidio di Killah P a costringere il governo greco a cambiare atteggiamento nei confronti delle camicie nere. Minacciando il taglio del finanziamento pubblico, ordinando perquisizioni in alcune sedi del partito, destituendo alcuni importanti dirigenti della polizia troppo collaborativi con Alba Dorata. Finché venerdì notte una riunione ‘segreta’ tra i ministri chiave di Samaras e l’Antiterrorismo non ha dato il via agli arresti ordinati. Per la prima volta dalla fine della dittatura dei colonnelli – di cui Alba Dorata rappresenta una esasperata continuità – a finire in manette sono stati alcuni parlamentari. E la faccia del ‘fuhrer’ Michaloliakos mentre gli agenti incappucciati lo portano fuori dalla sede centrale della Polizia, ammanettato, è rivelatrice della sorpresa e della rabbia del mandante di quella che la magistratura, nelle nove pagine che hanno dato il via alla retata, descrive come un’organizzazione criminale profondamente gerarchizzata colpevole di omicidi, aggressioni, rapine, estorsioni e riciclaggio di denaro sporco.

Un'inchiesta scattata dopo l’omicidio, il 17 settembre, del rapper 34enne ma che include decine di altre denunce che procure e dirigenti della polizia avevano per almeno tre anni lasciato nei loro cassetti, garantendo ai nazisti impunità e agibilità. Grazie al clima creato in Grecia dalla morte di Fyssas – enormi manifestazioni hanno chiesto la messa fuori legge di Chrysi Avgi, le cui sedi sono state assaltate e a volte distrutte dai manifestanti più radicali – i procuratori Charalambos Vourliotis ed Euterpe Goutzamani in pochi giorni hanno avocato a sé le varie inchieste, avvalendosi anche delle testimonianze di quelli che la stampa ha descritto come esponenti di Alba Dorata ‘pentiti’, e che a questo punto appaiono più come degli infiltrati dei servizi segreti nel movimento nazista. Da tempo, si è saputo, ‘attenzionato’ dalle forze di sicurezza che hanno pedinato gli squadristi e ne hanno intercettato le conversazioni. Soffiate e intercettazioni hanno permesso di risalire dal sicario autore dell’omicidio, Giorgos Roupakias, fino ai quadri locali di Alba Dorata di Keratsini e Nicea, e su fino ai massimi dirigenti del partito: Michaloliakos, Pappas, Michos, Kasidiaris e Panagiotaros. Che hanno perso l'immunità parlamentare in virtù dell'articolo 187 del codice penale, pur rimanendo in carica fino ad una eventuale condanna definitiva.

Le indagini hanno condotto ieri anche all'arresto di due agenti di polizia, dopo quelli già arrestati o messi sotto accusa nei giorni scorsi. Ieri, dopo due generali della Polizia, è saltato un altro pezzo da novanta, questa volta un dirigente del controspionaggio ‘dimissionato’ senza troppi complimenti. Secondo alcuni perché implicato nella preparazione di un eventuale colpo di stato dell’estrema destra. Dimos Kouzilos, capo della Terza divisione Peg del controspionaggio ellenico, la sezione dedita al controllo nazionale delle intercettazioni telefoniche e quindi ‘Grande Fratello’ ellenico, sarebbe parente del deputato di Alba dorata Nikos Kouzilos. Secondo altri la colpa di Kouzilos, promosso all’incarico da Ioannis Dikopoulois, uno dei due capi della polizia sostituiti tre giorni fa, sarebbe stata quella di non aver colto e denunciato le responsabilità dei vertici neonazisti che pure teneva sotto osservazione da tempo.
Alcuni media ellenici riportano oggi che nei giorni scorsi un’informativa al governo ellenico proveniente dai servizi segreti greci ma anche da quelli israeliani allertava su un possibile colpo di stato, ideato da Alba Dorata insieme ad alcuni militari ed ex militari in pensione guidati da Sotiris Tziakos, che sarebbe dovuto scattare proprio ieri. Tziakos, insieme al colonnello Michalis Ioannides, è il punto di riferimento di due pagine facebook: uno denominato ‘un milione di armi greche’ e l’altro ‘Costituzione Gruppo Tempo Zero’, sulle quali è evidente la propaganda militarista e di estrema destra. Davvero i neonazisti preparavano un colpo di Stato? O il pericolo di un golpe è servito al governo per giustificare il cambio di passo nei confronti di Michaloliakos e camerati? 
Da notare che la risposta dell’estrema destra agli arresti non è stata ieri particolarmente contundente. Circa trecento militanti sono andati a sventolare le bandiere greche davanti alla sede centrale della Polizia, in via Alexandra, nella Capitale, finché non sono stati sloggiati dai reparti antisommossa. E all’Associazione dei riservisti delle forze speciali dell’esercito (Keed) che pochi giorni fa aveva chiesto le dimissioni del governo, le autorità hanno vietato una marcia convocata ad Atene. Domani in parlamento dovrebbe iniziare l’iter per l’approvazione di una nuova legge che permette di sospendere il finanziamento pubblico alle organizzazioni partitiche accusate di svolgere attività illegali.
“Finalmente!” è stata la reazione più comune tra i militanti e i dirigenti dei sindacati, dei partiti di sinistra, delle organizzazioni popolari. Quelli che per anni hanno subito le aggressioni e i pestaggi degli squadristi di Michaloliakos, e che stampa e governo hanno sempre associato ai nazisti nella teoria degli opposti estremismi. Teoria che anche in questi giorni i dirigenti socialisti e del centrodestra di Samaras hanno rispolverato, e che potrebbe permettere, dopo aver colpito ieri l’estrema destra, di cominciare a colpire l’estrema sinistra. In nome della stabilità, della legge, dell’ordine, riservando lo stesso trattamento a quella che è di fatti una loro creatura – Alba Dorata – e poi al vero nemico, i movimenti popolari e quegli spezzoni della sinistra che contestano le politiche di austerità, la sudditanza della Grecia agli interessi dell’Unione Europea e del grande capitale internazionale. 

E’ impensabile che un movimento che ha raccolto lo scorso anno il 7% dei consensi e che si è rapidamente radicato nella società greca possa essere cancellato da un giorno all’altro con un atto giudiziario. Da alcune parti si cerca in queste ore di mettere in allarme la società greca sul pericolo che la punizione dei dirigenti di Alba Dorata nasconda un disegno più complesso: la rifondazione di Alba Dorata e la riconversione del partito neonazista in una forza di estrema destra ripulita e presentabile, adatta ad essere accolta in un eventuale governo di ‘centrodestra’. Lo avevamo già scritto, su Contropiano, qualche giorno fa. E il fatto che uno dei parlamentari arrestati ieri, Panagiotaros, abbia parlato della necessità della rifondazione di Chrysi Avgi proprio prima di finire in manette sembra confermare il sospetto. Così come la collaborazione parlamentare offerta da Michaloliakos al premier Samaras venerdì, in un intervento pubblico alla vigilia del suo arresto. Oppure, è l’altra ipotesi, Nuova Democrazia mira semplicemente a raggranellare i consensi elettorali che ora vanno ai neonazisti e che dopo l’eventuale messa fuori legge di Alba Dorata o il suo ridimensionamento tramite la via giudiziaria si troverebbero ‘a disposizione’. A Samaras basterebbe spostare un po’ più a destra il suo discorso politico, e il gioco sarebbe fatto.
Non è un caso che l’inchiesta imputa al partito neonazista di essere un’associazione a delinquere, un’organizzazione criminale – come potrebbe essere la mafia – senza metterne in discussione la legittimità politica in quanto organizzazione terroristica di estrema destra. 
Ma non sempre le ciambelle riescono col buco. La fine della tremenda crisi in cui le politiche di austerità hanno gettato la Grecia non sembra a portata di mano e non è detto che una forza neonazista e violenta sparisca dalla scena così, come d’incanto. Non sarà certo il sistema politico ed economico che ha allevato e protetto la bestia nazista a eliminarla. Non può, e non vuole. La sinistra e i movimenti popolari faranno bene a tenere alta la guardia e a non delegare alle istituzioni la lotta contro il fascismo.

Cade il governo, Berlusconi rompe le righe di Contropiano.org


Cade il governo, Berlusconi rompe le righe
Sono pazzi, questi servi. Diciamola com'è: il capitale internazionale e nazionale ha “bisogno di stabilità” e questi cosa fanno? Si dimettono perché “il capo” glielo ordina...
Silvio Berlusconi apre di fatto la crisi di governo, invitando i ministri del Pdl a rassegnare le dimissioni. E quelli obbediscono come un manichino senza volontà autonoma. Il ministro di polizia detto dell'interno - quel tudero che pochi giorni fa era corso in Val Susa a gridare “quel che lo stato ha deciso sarà fatto e guai a chi prova a opporsi” - ha fatto sapere che «I ministri del Pdl rassegnano le proprie dimissioni», seguito dall'impagabile sottosegretario alla Pubblica amministrazione e semplificazione, Gianfranco Miccichè – quello che riceveva dentro il ministero uno spacciatore di coca - che si è lanciato a dire: «Rimetto il mio mandato nelle mani di Silvio Berlusconi». Nessuno lo aveva ancora avvertito che era in quel posto come autorità dello Stato, non come maggiordomo in prestito da una casata da quattro soldi.
Poco prima il Cavaliere aveva annunciato di voler disertare la seduta della giunta per le elezioni, mettendo di fatto fine al governo Letta. «Ho invitato la delegazione del Popolo della Libertà al governo a valutare l'opportunità di presentare immediatamente le proprie dimissioni per non rendersi complici, e per non rendere complice il Popolo della Libertà, di una ulteriore odiosa vessazione imposta dalla sinistra agli italiani».
Per quale motivo? «La decisione assunta ieri dal Presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta, di congelare l'attività di governo, determinando in questo modo l'aumento dell'Iva, è una grave violazione dei patti su cui si fonda questo governo, contraddice il programma presentato alle Camere dallo stesso premier e ci costringerebbe a violare gli impegni presi con i nostri elettori durante la campagna elettorale e al momento in cui votammo la fiducia a questo esecutivo da noi fortemente voluto». «Per queste ragioni, l'ultimatum lanciato dal premier e dal Partito Democratico agli alleati di governo sulla pelle degli italiani, appare irricevibile e inaccettabile. Pertanto ho invitato la delegazione del Popolo della Libertà al governo a valutare l'opportunità di presentare immediatamente le proprie dimissioni per non rendersi complici, e per non rendere complice il Popolo della Libertà, di una ulteriore odiosa vessazione imposta dalla sinistra agli italiani».
Ora, se qualcuno può arrivare a credere che l'aumento dell'Iva sia alla base della decisioni del Caimano, è bene riaprire i manicomi.
A quel poveretto di Letta il Giovane, immolatosi per conto di Napolitano alla guida di improbabili “larghe intese”, non è rimasto che dire mestamente: «Il chiarimento deve avvenire in Parlamento, alla luce del sole e di fronte ai cittadini». Del resto, «Il tentativo di rovesciare la frittata sulle ragioni dell'aumento dell'Iva è contraddetto dai fatti che sono sotto gli occhi di tutti perché il mancato intervento è frutto delle dimissioni dei parlamentari Pdl e quindi del fatto che non era garantita la conversione del decreto legge in legge».
Ora tutto è in ballo. Non semplicemente il governo, ma l'intero assetto istituzionale. Questo, a sinistra, è difficile da capire. Ma uno Stato degno di questo nome – e quello italiano ha sempre avuto qualche difficoltà a rispettare il ruolo – si regge sul fatto che le contrapposte parti politiche riconoscono lo stesso equilibrio di poteri, atteggiandosi a gestori temporanei di un sistema che va al di là di loro stessi. Se invece, come con Berlusconi, la “democraticità” di un equilibrio coincide con “l'agibilità politica” di un unico capobanda, allora non può esistere alcun equilibrio.
Complicazione ulteriore. A rigor di termini, questo atteggiamento obiettivamente “eversivo” (che è il contrario di “sovversivo”) sarebbe “comprensibile se poi questo capobanda fosse disponibile a condurre una guerra aperta sul piano sociale e politico. Cosa che, al momento, non appare probabile. Ve lo immaginate il Caimano alla guida delle truppe cammellate alla conquista di Roma? No, eh? E allora come può finire questa stronzata? Nell'unico modo che tutti voi potete immaginare: nella fuoriuscita di quello che “l'Europa” considera un ostacolo senza dignità. Potete scommetterci:finirà così.
Per questo non andate a festeggiare sotto il Quirinale il giorno che gli arriveranno gli arresti domiciliari. Fareste una figura da fessi di complemento...
Scendete in piazza il 18 e 19 ottobre, è decisamente più serio.

Capitalisti alle cozze da Piovono rane di Alessandro Gilioli


Unknown

Ma se questa storia di Telecom – e quella ancora più surreale di Alitalia – fornisse invece a tutti un bello spunto di riflessione su quello che sanno e quello che non sanno fare i grandi imprenditori e capitalisti italiani?
No, perché è da quando sono nato che li sento lamentarsi nei convegni e sui giornali - la burocrazia, le tasse,  i sindacati, i ‘lacci e laccioli’ etc – ma mai una volta che li ho sentiti fare un po’ d’autocritica sulle loro pratiche individuali e collettive, sulle posizioni di rendita di cui hanno goduto, sui loro intrecci con le banche e con la politica, sui loro investimenti sbilenchi e sul loro stare spesso al limite della legge.
Ma lo sapete, ad esempio, chi c’è tra i famosi ‘patrioti’ che hanno rilevato Alitalia a spese nostre? Emilio Riva, quello dell’Ilva, indagato e già ai domiciliari; Salvatore Ligresti, arrestato; Francesco Gaetano Caltagirone, indagato per frode fiscale; Antonio Angelucci, indagato per truffa allo Stato.
Questi i ‘patrioti’. E quello che li ha chiamati a raccolta, come noto, è un altro grande imprenditore italiano appena condannato per frode fiscale.
Invece di accapigliarci sulla perduta italianità di Telecom e Alitalia, non sarebbe il caso di interrogarsi tutti sull’attuale classe dirigente dell’economia italiana che non sembra essere migliore – né eticamentetecnicamente – di quella che comanda in politica?
E non è che il famoso ‘declino’ di questo Paese abbia a che fare con questo mix di insipenza e opportunismo molto più che con l’articolo 18 o con la ‘rigidità’ della legge 626?



Saldi all’Italiana
di ,Il Fatto Quotidiano
 
Saccomanni è un uomo ottimista, meno male perché c’è ben poco da stare allegri. Secondo il Fondo Monetario lo stato della nostra economia è preoccupante. Quest’anno il Pil dovrebbe diminuire dell’1,7 per cento, a detta del Tesoro, ma il Fmi non esclude una contrazione del 2 per cento. Siamo al quarto anno di recessione dal 2008, con alle spalle un calo del 2,4 per cento nel 2012. I conti pubblici, poi, non sono affatto a posto. Il deficit tendenziale per il 2013 è del 3,1 per cento, ragione per cui serviranno 1,5-20 miliardi per non sforare il limite massimo consentito dall’Europa pari al 3 per cento. Il problema è dove li troviamo tutti questi soldi?
C’è chi sostiene che si potrebbero vendere i beni pubblici ancora in nostro possesso: se escludiamo beni come l’acqua che un referendum ha sancito di propietà esclusivamente pubblica, ci sono rimasti solo caserme e monumenti. Quasi tutti i gioielli di famiglia industriali se ne sono andati nel 1992, per far fronte alla crisi della lira. Naturalmente quella svendita, gestita dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi,  non portò, come era stato promesso, al miglioramento dei conti pubblici. Nel 1994 il debito pubblico ammontava a 1.771.108 miliardi di lire, il gettito generato dalle privatizzazioni per il triennio 1993-1995 fu di appena 27.000 miliardi, meno dell’1,5 per cento.
Piuttosto i saldi all’italiana produssero lo smembramento dell’industria pubblica a vantaggio di élite straniere ed italiane, oggi finalmente abbiamo capito che ha contribuito al processo di deindustrializzazione del paese che tanto preoccupala Commissione Europea. Ed è bene rinfrescarci la memoria su come furono gestiti quei saldi per evitare di doverne pagare il conto ancora una volta noi.
Dal 1992 al 2002 il Tesoro gesti direttamente operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6 miliardi di euro. A questa cifra vanno però aggiunte le privatizzazioni gestite dall’Iri (sempre sotto il coordinamento del Tesoro), per un controvalore di circa 56,4 miliardi di euro, le dismissioni realizzate dall’Eni (5,4 miliardi di euro) e la liquidazione dell’Efim (440 milioni di euro). Si tratta di cifre molto consistenti, da cui è facile intuire il valore e l’importanza dei beni venduti, o per meglio dire “svenduti”.
Per capire quanto valgono questi stessi beni che non ci appartengono più possiamo comparare gli incassi delle privatizzazioni con i valori delle rivendite degli stessi da parte dei privati o i valori attuali.
Il gruppo Benetton si aggiudicava per 470 miliardi GS autogrill che poi ha rivenduto ai francesi di Carrefour GS per 10 volte tanto.
Nel 1992 la cessione del 58 per cento del Credito italiano produsse ricavi lordi per 930 milioni di euro, nel 2002 Unicredito italiano capitalizzava 26.593 milioni di euro.
Tra il 1994 e il 1996 la cessione del 36,5 per cento dell’Imi rese 1.125 milioni di euro, le successive 3 tranche, pari al 19 e al 6,9 per cento, rispettivamente 619 e 258 milioni di euro, nel 2002 Imi-Sanpaolo capitalizzava 16.941 milioni di euro.
Un caso a parte è poi rappresentato dal Banco di Napoli: quel 60 per cento che lo Stato ha venduto alla BNL per 32 milioni di euro (una volta ripulito delle perdite e dei crediti inesigibili con 6.200 milioni di euro di denaro pubblico), viene rivenduto dalla BNL, a distanza di pochi anni, per 1.000 milioni di euro. È anche vero chela BNL lo ha risanato completamente, ma la differenza tra i due valori è enorme. In ogni caso perché questo risanamento non poteva avvenire per mano dello Stato? Perché è gestito da incompetenti e da pirati.
Alle cifre di vendita da parte del tesoro vanno aggiunte le commissioni per i collocatori di borsa, banche che compongono il sindacato di collocamento e altri consulenti, così come le spese di registrazione e listing sui mercati azionari, spese per adempimenti CONSOB, SEC eccetera. Questi costi nel corso degli anni sono diminuiti, ma si aggirano comunque tra il 2 e il 3 per cento dell’ammontare totale del ricavato. Una fetta consistente di questo denaro, circa l’1 per cento, l’hanno poi incassata le maggiori investment banks anglosassoni, come J.P. Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, First Boston, Merrill Lynch e così via, per la loro attività di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio neanche un dollaro, e senza dover neppure sostenere una gara pubblica per l’affidamento dell’incarico.
La seconda fase del processo di privatizzazione riguarda invece le banche di diritto pubblico, e include la privatizzazione de facto della Banca d’Italia i cui azionisti fino ad allora erano banche italiane di diritto pubblico. Dal 1992 la proprietà passa nelle mani di privati spesso addirittura esteri, che hanno rilevato quote sostanziose delle banche italiane come BNP Paribas, Crédit agricole, Banco Bilbao, Allianz eccetera, il tutto in palese violazione dell’articolo 3 del vecchio statuto, sostituito soltanto nel 2006. Le conseguenze più importanti di questa decisione riguardano la creazione di moneta, che dalle mani dello Stato – cioè noi cittadini – passa a quelle di soggetti esteri, a questi ultimi viene virtualmente ceduta una fetta della nostra sovranità nazionale.
Completate le privatizzazioni comincia il gioco delle sedie: alcuni personaggi chiave lasciano il settore pubblico e vanno a lavorare per le grandi banche straniere che hanno guidato la vendita del patrimonio nazionale sul mercato: Mario Draghi diventa vicepresidente della Goldman Sachs e Vittorio Grilli, ai tempi vicedirettore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni, viene assunto al Credit Suisse.
Qualcuno ha scritto che ciò che è successo in Italia assomiglia allo smembramento delle aziende di stato della vecchia Unione Sovietica, ed in parte il parallelo è giusto. Ma gli oligarchi russi se ne impossessarono, i manager ed i politici italiani le hanno sembrate per regalarle ai loro amici stranieri in cambio di posti di lavoro all’estero.

BANCOCRAZIA: QUANDO SCOPPIERÀ LA BOMBA? di Michael Snyder

28 settembre. Dati inquietanti quelli pubbicati dal quotidiano statunitense  Los Angeles Times il 17 settembre scorso. Quelle che erano considerate dopo il collasso del 2008 "banche troppo grandi per fallire", ora sono molto più grandi di prima. La tabella accanto ci dice che gli asset totali del sistema bancario Usa ammontino a 14,4mila miliardi di dollari e che le sei principali banche ne detengano il 67%. Ecco chi anzitutto si è avvantaggiato della politica monetaria della Federal Reserve. L'autore, che non è certo un anticapitalista, mette giustamente in guardia che, nel caso la Fed sia costretta ad alzare il tasso d'interesse e/o sopraggiunga un'ondata di panico sui derivati, la possibilità di un crollo ancor più catastrofico di quello del 2008 è nell'ordine delle cose.


«Le banche "troppo grandi per fallire" sono ora molto, molto più grandi di quanto non fossero l'ultima volta che hanno causato così tanti problemi. Negli ultimi cinque anni le sei maggiori banche degli USA sono cresciute del 37%. Nel frattempo, 1.400 banche più piccole sono scomparse nello stesso periodo.
Ciò significa che la salute di JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley è più critica per l'economia degli Stati Uniti rispetto al passato. Se nel 2008 erano "troppo grandi per fallire", ora devono essere "troppo colossali per crollare". Senza queste banche, non abbiamo un'economia.

Le sei più grandi banche controllano il 67% di tutte le attività bancarie degli Stati Uniti e Bank of America da sola é responsabile di circa un terzo di tutti i prestiti alle imprese l'anno scorso. La nostra intera economia è basata sul credito, e queste banche giganti sono il centro stesso del nostro sistema di credito. Se queste banche andassero al collasso, una brutale depressione economica sarebbe garantita. Purtroppo, come si vedrà più avanti in questo articolo, queste banche non hanno imparato nulla dal 2008 e continuano ad essere estremamente imprudenti. Contano sul fatto che se qualcosa andasse storto noi le salveremmo, ma la prossima volta ciò potrebbe non accadere.

Fin dalla crisi finanziaria del 2008, i nostri politici sono andati in giro proclamando che non avranno pace finché non avranno risolto il problema delle banche "troppo grandi per fallire", ma invece di risolverlo quelle banche sono rapidamente diventate ancora più grandi. Basta controllare i numeri seguenti, che provengono dal Los Angeles Times ...
Appena prima della crisi finanziaria, Wells Fargo & Co. aveva un patrimonio di 609 miliardi di dollari. Ora ha 1400 miliardi dollari. Bank of America Corp. aveva un patrimonio di 1.700 miliardi di dollari. Ora sono 2.100 miliardi.
E gli asset di JPMorgan Chase & Co., la più grande banca della nazione, sono lievitati a 2.400 miliardi di dollari da 1.800.

Stiamo assistendo ad un consolidamento del settore bancario che è assolutamente incredibile. Centinaia di banche più piccole sono state inghiottite da questi colossi, e milioni di americani stanno scoprendo che essi devono avere a che fare con questi colossi bancari sia che lo vogliano o no.
Anche se tutto quello che fanno è far girare il denaro, queste banche sono diventate il cuore del nostro sistema economico, e stanno crescendo ad un ritmo sorprendente. I seguenti numeri provengono da un recente articolo della CNN ...
 
[Nella tabella di destra l'andamento dei profitti delle banche americane. Smetnendo i pronostici degli analisti, stanno tornano ai livelli pre-crack]
 
- Gli asset delle sei maggiori banche degli USA sono cresciuti del 37% negli ultimi cinque anni.
- Il sistema bancario statunitense ha 14.400 miliardi di dollari in attività totali. Le sei banche maggiori ora rappresentano il 67 % di tali attività e le altre 6.934 banche rappresentano solo il 33 % di tali attività.
- Circa 1.400 banche minori sono scomparse negli ultimi cinque anni.
- JPMorgan Chase ha le dimensioni di tutta l'economia britannica.
- Le quattro maggiori banche hanno più di un milione di dipendenti messi insieme.
- Le cinque banche più grandi erogano il 42% di tutti i prestiti negli USA.

Come ho discusso in precedenza, senza queste banche giganti non c'è economia. Non avremmo dovuto mai permettere che questo accadesse, ma ora che è successo è indispensabile che gli americani capiscano che il potere di queste banche è assolutamente travolgente...
Un terzo di tutti i prestiti alle imprese di quest'anno sono state fatte da Bank of America. Wells Fargo finanzia quasi un quarto di tutti i prestiti ipotecari. E nelle casse della JPMorgan Chase sono custoditi 1.300 miliardi dollari, cioè il 12% di tutto il nostro denaro, compresi i libri paga di molte migliaia di aziende, o abbastanza per comprare 47.636.496.885 tostapane con il logo delle squadre NFL. Grazie ai vostri affari!

Un sacco di persone tendono a concentrarsi su molte delle altre minacce per la nostra economia, ma la principale minaccia che la nostra economia si trova ad affrontare è il potenziale fallimento delle banche troppo grandi per fallire. Come abbiamo visto nel 2008, quando iniziano a perdere colpi le cose possono peggiorare molto velocemente. . E come ho scritto tante volte, la minaccia principale per le banche troppo grandi per fallire è la possibilità di una crisi dei derivati.

Nomi Prins, ex banchiere di Goldman Sachs e autore di best seller, ha recentemente detto a Greg Hunter di USAWatchdog.com che l'economia globale "potrebbe implodere e avere gravi conseguenze sul sistema finanziario che iniziano con i derivati e si espandono al resto". È possibile guardare il video completo di quell'intervista qui.

E Nomi Prins ha perfettamente ragione. Proprio come abbiamo visto nel 2008, un panico sui derivati può finire molto rapidamente fuori controllo. Le nostre grandi banche dovrebbero aver imparato la lezione del 2008 e avrebbero dovuto notevolmente ridimensionare le loro scommesse sconsiderate.

Purtroppo, ciò non è accaduto. Infatti, secondo l'ultimo rapporto trimestrale dell'OCC su trading bancario e strumenti derivati, le grandi banche sono diventate ancora più spericolate dall'ultima volta che ho scritto sull'argomento. Le seguenti cifre riflettono le nuove informazioni contenute nell'ultimo rapporto OCC ...

JPMorgan Chase

Attività totali: $ 1,948,150,000,000 (poco più di 1.900 miliardi di dollari)
L'esposizione totale in derivati : $ 70,287,894,000,000 (più di 70.000 miliardi di dollari)

Citibank

Attività totali: $ 1,306,258,000,000 (un po' più di 1.300 miliardi di dollari)
L'esposizione totale in derivati : $ 58,471,038,000,000 (più di 58.000 miliardi di dollari)

Bank Of America

Attività totali: $ 1,458,091,000,000 (un po' più di 1.400 miliardi di dollari)
L'esposizione totale in derivati : $ 44,543,003,000,000 (più di 44.000 miliardi di dollari)

Goldman Sachs

Attività totali: $ 113,743, 000,000 (poco più di 113 miliardi di dollari - sì, avete letto bene)
L'esposizione totale in derivati : $ 42,251,600,000,000 ( più di 42.000 miliardi di dollari )
Ciò significa che l'esposizione totale che Goldman Sachs ha in contratti derivati è più di 371 volte maggiore rispetto al loro patrimonio complessivo.

Come nel mondo qualcuno può dire che Goldman Sachs non sia incredibilmente scriteriata?
E ricordate, la stragrande maggioranza di questi contratti derivati sono strumenti derivati su tassi di interesse.
Forti oscillazioni nei tassi di interesse potrebbero scatenare questa bomba e fare in modo che il nostro intero sistema finanziario precipiti nel caos.

Per il momento i rendimenti dei titoli del Tesoro USA a 10 anni si sono stabilizzati, dopo essere cresciuti rapidamente per un paio di mesi.
Ma questo cambierebbe se i tassi di interesse cominciassero a salire di nuovo drammaticamente, diventerebbe un problema enorme per le banche troppo grandi per fallire.
So che molti di voi non hanno molta simpatia per le grandi banche, ma ricordate che, se crollano, crolliamo anche noi.

Queste banche sono state incredibilmente scriteriate, ma se fallissero, tutti ne pagheremmo il prezzo».

* Fonte: ComeDonChisciotte.org
** Fonte otiginaria: http://theeconomiccollapseblog.com
Link: http://theeconomiccollapseblog.com/archives/too-big-to-fail-is-now-bigger-than-ever-before  20.09. 2013 

*** Traduzione per ComeDonChisciotte.org a cura di REMULAZZ

150 giorni dopo di Piovono rane di Alessandro Gilioli

Bastava non abboccare 150 giorni fa, caro Enrico, cari dirigenti dell’attuale Pd.
Davvero non sapevate, 150 giorni fa, chi era Berlusconi, dopo che lo abbiamo conosciuto per vent’anni? Lui, i suoi reati, il suo disprezzo per le regole, per il Parlamento, per la Costituzione?
Era un delinquente eversivo, lo sapevamo tutti, perché voi avete finto di non saperlo? Per giocarvi l’ultimo giro di poltrone o perché davvero qualcuno di voi pensava che fosse diventato uomo di moderazione, di responsabilità, di istituzioni?
Non so se è più grave e colpevole la prima o la seconda ipotesi, davvero non so: se è peggio l’opportunismo o la stupidità.
E poi quella balla, quella gigantesca balla del “non c’erano alternative”, come se quella che avete scelto invece fosse un’alternativa, mentre era la peggiore scelta possibile, quella che ha riportato tutto al punto di partenza avendo perso sei mesi e adesso rimangono solo le elezioni o la raccolta di transfughi, come e peggio di 150 giorni fa, quando avete scelto questa follia.
Di diverso, rispetto ad aprile, c’è solo che nel frattempo avete perso la faccia mescolandovi con una compagnia di servi e malfattori, e adesso anche chi come me sperava in una maggioranza diversa – fatta con pratiche e persone diverse – sa che con voi questa non è possibile, non con quelli che siete adesso, non con i 101, non con chi ha voluto il governo con B. e ha agito per arrivarci.
E poi, e poi: vi rendete conto che in sei mesi il vostro mitico ’governo del fare’ alla fine una cosa sola ha fatto, cioè la sospensione dell’Imu, cioè la punta di diamante del programma elettorale di Berlusconi, e certamente una scelta che non riduce le diseguaglianze sociali e generazionali, ma semmai le accentua?
Ne siete orgogliosi, sì?
Avete sbagliato tutto e nemmeno se vi scusaste più in ginocchio di Barilla ora sareste davvero scusabili.

sabato 28 settembre 2013

Il Fmi difende Letta di Claudio Conti, Contropiano.org

Il Fmi difende Letta

Da quando la politica occidentale è stata messa ufficialmente da parte per lasciare il posto di comando assoluto all'economia (quindi, viste le evoluzioni, alla sola finanza), ogni outlook economico è diventato immediatamente un diktat politico.

La conferma in tempo reale attiva dal rapporto del Fondo Monetario Internazionale diffuso ieri. Oltre alle previsioni economiche in senso stretto, infatti, da lì arriva un appoggio diretto al governo Letta: «le tensioni all'interno della coalizione sono evidenti e rappresentano un rischio all'outlook economico».
Nessuna sorpresa, visto che a parlare è la terza gamba della Troika (insieme a Bce e Ue), il kombinat che sta dirigendo l'Italia (oltre a Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Cipro e chi capiterà a tiro) da un paio d'anni a questa parte.
Ma la “discesa in campo” della potenza sovranazionale chiarisce anche perché la disastrosa stagione berlusconiana sia arrivata al punto finale, tanto che ormai anche Giorgio Napolitano – il mediatore col Cavaliere oltre ogni logica costituzionale – sembra aver scaricato in mare l'ingombrante relitto.
Mentre tanto “popolo di sinistra” sta lì alla finestra ad attendere “l'arresto”, per poi magari correre a festeggiare in piazza sotto l'attenta regia degli uomini e dei media della “Troika”, sta maturando invece un bisogno autenticamente popolare di rompere la gabbia e “rovesciare il tavolo”.

Le ragioni sono rintracciabili, quasi in modo trasparente, nei resoconti di stampa. Vi suggeriamo di leggere questo, da IlSole24Ore, inframezzato dalla nostra “decodifica”, in corsivo.

Il Fmi: le tensioni sul Governo Letta sono un rischio per l'economia. Anche europea. Disoccupazione ai massimi dal Dopoguerra

Il governo di Enrico Letta «mantiene l'appoggio del parlamento» ma «le tensioni all'interno della coalizione sono evidenti e rappresentano un rischio all'outlook economico». Lo afferma il Fmi, nell'Article IV sull'Italia. «Il governo continua a portare avanti un'agenda di riforme ma si trova a far fronte a limiti politici». Un peggioramento della crisi economica in Italia avrebbe ricadute "marcate" in Europa e nel resto del mondo: «Dato il suo ruolo centrale negli scambi globali e nel sistema finanziario, un significativo shock potrebbe generare effetti regionali e globali maggiori di quanto suggerito dall'esposizione diretta».

Redazione. La benedizione della “stabilità politica” è esplicita, l'approvazione per il “programma di riforme” anche, la condanna dell'avventurismo berlusconiano felpata ma definitiva. Il resto è normale terrorismo psicologico, peraltro fondato su dati reali: l'Italia, pur in declino, rappresenta una pedina importante nello scacchiere degli scambi internazionali. Quindi un precipitare della sua crisi – a maggior ragione per motivi politici – avrebbe conseguenze ben più rilevanti, per il sistema nel suo complesso, di quelle giù inquietanti scatenate dalla crisi greca.

Disoccupazione ai massimi dal dopoguerra
In Italia il tasso di disoccupazione «è ai massimi del dopoguerra, al 12%, con la disoccupazione giovanile vicina al 40%». È quanto si legge nel rapporto Articolo IV del Fondo monetario internazionale, redatto al termine della missione in Italia. Guardando ai numeri, il tasso di disoccupazione dovrebbe crescere dal 10,7% dell'anno scorso al 12,5% nel 2013 e attestarsi al 12,4% l'anno prossimo. Il documento precisa che «l'economia sta mostrando segnali di stabilizzazione, ma la disoccupazione é ancora alta e i trend rimangono bassi».

Red. Il Fmi sembra accettare l'impostazione “ottimistica” data dal governo nel Documento di economia e finanza, preparatorio della “Legge di stabilità” vera e propria. Non tiene dunque per il momento in nessun conto gli allarmi – fondati su dati certi, non su impressioni – lanciati da altri organismo sovranazionali. In particolare, la Commissione Europa (25 settembre) nel suo rapporto sulla competitività, registra che l’Italia ha perso il 20% della struttura produttiva, mentre l’Ocse ha previsto una crescita negativa per il 2013 dell’1,8%, contro i valori positivi dell’Europa e parte dei paesi di area Ocse. Ora, se un paese ha perso un quinto (un quinto!!) della sua struttura produttiva, e se il crollo degli investimenti delle imprese tra il 2012 e il 2013 è arrivato al 13,5%, appare letteralmente impossibile che possa “crescere” soltanto in virtù dei tagli alla spesa pubblica, alla precarizzazione contrattuale e ai salari bassi. E questo lo si può affermare con nettezza anche senza calcolare le svendite di parti consistenti del patrimonio industriale nazionale a colossi multinazionali, che possono dunque decidere di proseguire oppure no la produzione in questo paese.

«Servono ulteriori riforme»
Il Fmi ha accolto con favore il pacchetto di misure a favore della crescita e del mercato del lavoro, ma ha sottolineato che «servono ulteriori riforme per dare slancio alla produttività e aumentare il tasso di occupazione, soprattutto tra giovani e donne». Questo andrebbe fatto anche semplificando i contratti e riducendo le tasse sul lavoro.

Red. Ma i teorici del Fmi conoscono una sola teoria economica; e non importa se la realtà dà loro torto (“tanto peggio per i fatti”, avrebbe detto qualcuno). Ripropongono sempre la stessa ricetta, esattamente come un drogato che rincorre sempre la sua dose quotidiana che lo sta portando al creatore. “Semplificare” i contratti, in un paese che ha già 46 forme contrattuali precarie e un 30% circa di lavoro nero (il più “semplice” che si possa immaginare) è una barzelletta oppure un insulto all'intelligenza. Comunque un invito a introdurre lo schiavismo senza la proprietà degli schiavi (quindi senza l'obbligo di mantenerli in vita; un risparmio, indubbiamente!). Un dettaglio: la “riduzione delle tasse sul lavoro” non è una “ricetta di sinistra”. La consiglia anche il Fmi....

«Modesta ripresa»
L'economia italiana é stata in recessione per quasi due anni, sulla scia di «un drastico calo della domanda interna», che riflette aspre condizioni del credito, aggiustamenti fiscali e un calo della fiducia. «Una modesta ripresa é attesa a partire alla fine del 2013, sostenuta dalle esportazioni nette». È quanto si legge nel rapporto Articolo IV del Fondo monetario internazionale, redatto al termine della missione in Italia. Secondo l'istituto di Washington, dopo il calo degli anni precedenti, «la domanda interna dovrebbe riprendersi lentamente» alla luce dei venti contrari derivati dalle difficili condizioni del credito. Guardando ai numeri, il Pil italiano, dopo la contrazione del 2,4% del 2012, dovrebbe segnare un -1,8% quest'anno per tornare alla crescita (+0,7%) nel 2014. L'inflazione si dovrebbe attestare all'1,6% nel 2013 e all'1,3% nel 2014.

Red. Il Fondo registra che la recessione italiana è stata moltiplicata dal crollo della domanda interna, ovvero dalla riduzione dei consumi (la gente non spende i soldi che non ha). Ma se ne frega. La “ripresa” che vede – ottimisticamente, dato che i numeri attuali dicono il contrario – è quella trainata dalle esportazioni. Ovvero una “crescita senza redistribuzione interna”, che può consolidare i protafogli delle imprese e delle banche (che potrebbero veder ridurre alcune “sofferenze” verso le imprese), ma che non si traduce né in maggiore occupazione né in incremento dei consumi interni.

Il nodo Mps
Il piano di ristrutturazione del Monte dei Paschi é un potenziale pericolo per tutto il sistema bancario del Paese data la stazza dell'istituto senese, afferma il Fmi. «L'attuazione dell'ambizioso piano di ristrutturazione é critica per la banca stessa e il sistema nel suo complesso». I problemi della banca scrivono gli ispettori del Fondo derivano dalla governance e dal fallimento del vecchio management.

Red. La prova del nove: la preoccupazione principale è tutta per le banche. Anche per una che, importante ma non decisiva, non occupa più i primi posti nella classifica nazionale del settore.

venerdì 27 settembre 2013

Capitalismo anno zero di Enrico Grazzini, da il manifesto


Le cronache di questi giorni - i casi Telecom, Alitalia, ecc. - ci raccontano di un capitalismo italiano in via di smobilitazione. L'intervento pubblico della Cassa Depositi e Prestiti e l'iniziativa dei lavoratori costituiscono forse l'unica possibilità di resistere al fallimento



Telecom, Alitalia, Finmeccanica-Ansaldo, Ilva. Ma anche i casi Fondiaria-Sai, Mps, Fiat-Chrysler e molti altri dimostrano in maniera lampante la fase finale del processo di smantellamento del capitalismo italiano.
Un capitalismo che di fronte alla globalizzazione finanziaria sta letteralmente fallendo.
Mentre Letta è in giro per il mondo a implorare investimenti esteri per l'Italia, le maggiori imprese italiane chiudono. A proposito, si dice che anche Pirelli verrà ceduta. L'intervento pubblico della Cassa Depositi e Prestiti e l'iniziativa dei lavoratori costituiscono allora forse l'unica possibilità di resistere al fallimento. La Cdp e la partecipazione dei lavoratori al governo dell'impresa possono diventare gli unici fattori di riscossa per salvare il sistema industriale italiano, quello che a suo tempo aveva fatto entrare l'Italia nel G7.
L'Italia ha ancora un futuro come paese industriale avanzato? Bisognerebbe innanzitutto «licenziare i padroni», come suggeriva nel suo saggio Massimo Mucchetti (attuale presidente pd della Commissione Industria, Commercio, Turismo). Già nel 2003 Mucchetti dimostrava, conti alla mano, che il capitale pubblico nel suo periodo d'oro aveva «creato valore» per l'economia nazionale mentre gli azionisti privati stavano «distruggendo valore» (azionario) delle loro società per magari arricchirsi sul piano personale. I casi Fonsai (Ligresti) e Telecom Italia, pur nella loro diversità, sono esemplari. Ma anche Fiat se ne sta andando in America e Mediobanca, crocevia del capitalismo italiano, sta smantellando le partecipazioni incrociate che hanno sostenuto fino ad oggi il sistema malato del «capitalismo privato di relazione».

La storia di questo fallimento è lunga e complessa ed ha a che fare con lo smantellamento dell'Iri, del suo fallimento legato alla lottizzazione partitica, alla corruzione dilagante e all'ingresso dell'Italia nell'euro, alla necessità di fare cassa svendendo ai privati le migliori aziende pubbliche (come Telecom Italia) per rientrare nei parametri di Maastricht.
Tuttavia le privatizzazioni sono fallite, la corruzione privata non è stata minore di quella pubblica e i capitalisti italiani si sono dimostrati più propensi a sfruttare le aziende ex pubbliche per ottenere rendite e vantaggi finanziari che a innovare e competere sui mercati.
Ma la storia la faranno gli storici. Ora occorre capire se e come è possibile uscire da questa situazione rovinosa. Per alcune aziende è probabilmente troppo tardi: è impossibile salvarsi dalla (s)vendita agli operatori esteri. Per altre occorre tentare di rilanciarle e di mantenere il controllo sulle tecnologie avanzate. L'unico soggetto che potrebbe intervenire per sborsare gli ingenti capitali indispensabili per il rilancio industriale è la Cassa Depositi e Prestiti, la società privata controllata però dal Tesoro italiano e dalle Fondazioni bancarie.
La Cdp ha infatti finalità pubbliche e disponibilità finanziaria per decine di miliardi. Il governo e il Parlamento italiano dovrebbero dare alla Cdp il mandato preciso di intervenire - direttamente o indirettamente - per acquisire il controllo delle aziende industriali e di servizio avanzate.
Purtroppo però il governo Letta-Alfano si limita a fare il ragioniere: punta solo a rientrare dal deficit pubblico nel tentativo di rispettare i parametri di Maastricht, e quindi strozza l'economia in un periodo in cui bisognerebbe investire. In nome di una vetusta e disastrosa ideologia liberista non vuole fare politica industriale e abbandona le aziende che sono i pilastri dell'economia italiana. Eppure non è vero che, come dice il dogma liberista, tutte le aziende pubbliche sono e devono essere sempre fallimentari: in Italia per esempio Eni ed Enel possono avere un ruolo positivo.
Il Parlamento dovrebbe allora obbligare il governo a ripubblicizzare i beni comuni nazionali, come la rete pubblica di telecomunicazioni, in modo che il paese ritorni ad avere un futuro. Ma la statalizzazione non basta. Non si devono ridare le aziende in mano alle consorterie statali e alle clientele politiche. Per evitare la corruzione partitica che ha rovinato l'Iri, si potrebbe adottare il modello tedesco di governo delle imprese da ripubblicizzare. I lavoratori, come accade in Germania, devono potere eleggere direttamente non solo il consiglio sindacale ma anche i loro rappresentanti nel cda delle imprese: i lavoratori devono potere influire sulle strategie e sulla gestione aziendale perché sono loro i principali interessati allo sviluppo delle imprese pubbliche.
La partecipazione dei lavoratori nel Cda delle aziende è la migliore garanzia che le imprese non verranno svendute al capitale estero e alla speculazione; inoltre, come dimostra il successo dell'economia tedesca, la partecipazione dei lavoratori è indispensabile per competere efficacemente nell'economia della conoscenza. Tutte le maggiori imprese tedesche hanno nel consiglio di amministrazione metà dei consiglieri eletti dai lavoratori; e molte aziende di successo, come la Volkswagen, vedono anche la partecipazione del capitale pubblico.
Il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia. Purtroppo il modello tedesco di co-determinazione nel governo delle imprese è ancora sottovalutato o ignorato (o disprezzato) dalla sinistra politica e sindacale italiana (e avversato ovviamente dalla destra e dalla Confindustria). Qualcosa sta però finalmente cambiando: Susanna Camusso, segretario della Cgil, sul Corriere della Sera suggerisce per la prima volta di applicare l'articolo 46 della Costituzione: «La Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende». Solo l'intervento del capitale pubblico e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese possono salvare le grandi aziende italiane dal disastro, dalla svendita, dal fallimento

La gloriosa imprenditoria italiana. Perfino peggio della politica di Alessandro Robecchi, Il Fatto Quotidiano

Tanti anni fa portavo i pantaloni corti, andavo in bici e facevo la raccolta delle figurine. E intorno a me era tutto un tuonare minaccioso: “Lo Stato non deve fare i panettoni!”. “Lo Stato non deve fare le automobili!”. “Lo Stato non deve fare l’acciaio!”. Poi sono diventato grande e mi hanno spiegato che a fare l’economia devono essere gli imprenditori, questi eroi moderni che rischiano del loro e possono pure vincere, se sono bravi.
Ora, giorni nostri, non so i panettoni, ma le macchine le fa (?) Marchionne, l’acciaio lo fanno i Riva (!), le telecomunicazioni Tronchetti Provera, la compagnia aerea di bandiera Corrado Passera, Colaninno e alcuni coraggiosi imprenditori italiani che ci hanno spalato dentro una valanga di soldi (nostri), e ora la vendono ai francesi a meno di quanto offrivano cinque anni fa. Gli spagnoli si prendono Telecom, i francesi si prendono Alitalia, parlandone da viva, i marchi del lusso vanno anche loro verso la Francia, le fabbrichette vanno in Polonia durante le vacanze degli operai.
Ce n’è abbastanza per denunciare un grave caso di strabismo: tutto questo parlar male della politica e dei politici ha messo in secondo piano le gloriose capacità dell’imprenditoria italiana che rappresenta l’altra metà delle corruzione. In termini generali, certo, a grandi linee: dove passa una mazzetta c’è un politico da un lato e un imprenditore dall’altro.
E questo quando gli imprenditori non sono direttamente un’espressione politica, come furono i padroni “patrioti” che “salvarono” Alitalia, spinti da un Berlusconi in fregola elettorale e dalla speranza di futuri favori e contropartite. Ora si vede com’è andata a finire, con tanti saluti all’“italianità”, parola che echeggiò forte e chiara su tutti i giornali e che adesso potete archiviare.
Quanto alle telecomunicazioni, potete mettere in fila tutte le volte che ne avete sentito parlare come settore strategico, motore della modernità del paese eccetera, e anche quello potete archiviarlo per sempre, dato che con la vendita di Telecom tutti i maggiori operatori telefonici che operano in Italia sono stranieri. A questo punto, il vero problema non è la spagnolità di Telecom o la francesità di Alitalia, ma l’italianità dell’Italia.
Conosco l’obiezione: fare impresa in Italia è difficile, ma pare che sia difficile per gli italiani, perché se fosse difficile per tutti non verrebbero qui a comprare a man bassa. Poi, certo, possiamo fare collezione di belle frasi sulla casta, sulla politica, sui cialtroni che ci governano e che non spariscono mai. Perché invece i Colaninno, i Bernabè, i Tronchetti Provera, i Passera spariscono? Non pare: saltano da un consiglio di amministrazione all’altro come usignoli sui rami, quasi sempre lasciandosi dietro disastri epocali e balzando a combinarne di nuovi.
Sempre salutati come salvatori della patria, coraggiosi innovatori, costruttori di ardite strategie accolte dalla òla dei commentatori che dopo due, tre, quattro anni si esercitano a demolire quelle costruzioni. Pure loro (i commentatori) non se ne vanno mai: il loro passare dagli applausi (evviva, si salvaguarda l’italianità di Alitalia!) ai fischi (ma che avete fatto! Dovevate vendere subito ai francesi!) nello stesso film, addirittura nella stessa scena, è garanzia di durata. Il concetto di responsabilità (ho detto / fatto / pensato una cazzata, me ne vado) non è contemplato, chi rompe non paga, non porta via nemmeno i cocci, e si prepara a nuovi mirabolanti successi.

Le mobilitazioni di ottobre di Unione Sindacale di Base


Le mobilitazioni di ottobre
I media lanciano allarmi sul ritorno degli spaccavetrine, il Prefetto di Roma si preoccupa di rinviare la partita per poter disporre di maggiori forze di dissuasione e nell’aria si diffonde la preoccupazione di una calata di lanzichenecchi nella capitale in occasione delle giornate del 18 e del 19 ottobre. Noi vorremmo provare a chiarire, per chi lo vuol intendere, il senso delle giornate di mobilitazione a Roma che si stanno preparando in decine di città italiane.
C’è innanzitutto da sottolineare l’inedita connessione tra uno sciopero generale indetto dall’intero quadro unitario del sindacalismo di base per la giornata del 18 e la manifestazione per la casa e il reddito del giorno dopo. Una relazione non casuale ma voluta e costruita a partire da un punto focale di connessione tra le due manifestazioni: la lotta comune alle sempre più pesanti diseguaglianze sociali che si sono prodotte nel nostro paese e quindi per una radicale redistribuzione delle ricchezze. Il cuore della connessione è il salario, nella sua doppia configurazione di salario diretto cioè la busta paga, e salario indiretto, ovvero quell’insieme di servizi e condizioni generali che garantiscono la vita di ogni cittadino/lavoratore, di cui la questione abitativa è oggi un aspetto centrale.
Il primo versante della questione salariale è quello più tipicamente sindacale perché attiene all’insieme delle condizioni di lavoro. È il tema della precarietà, oggi sancita in modo tassativo come condizione normale di lavoro attraverso la massiccia estensione dell’uso del tempo determinato (anche grazie alle vergognose “sperimentazioni” dell’Expo di Milano). È il tema dei salari ben sotto i mille euro o dei milioni di pensionati al minimo. È il tema del non rinnovo dei contratti. È il tema del finanziamento della cassa integrazione. Ed è il tema tornato di grandissima attualità del rilancio di un piano straordinario per l’occupazione, che deve essere gestito secondo noi dalla mano pubblica e finalizzato ad opere di interesse sociale.
Il secondo versante della questione salariale è invece quello del salario indiretto, e attiene al modo in cui si stanno riconfigurando il sistema dei servizi, la vita urbana ed il rapporto con l’ambiente. E in questo secondo versante il tema degli alloggi è oggi una grande priorità in Italia. Siamo da tempo il fanalino di coda in Europa per quantità di alloggi popolari sull’insieme del patrimonio immobiliare nazionale (il 4% in Italia rispetto al 40% della Francia, il 47% dell’Olanda, il 57% della Germania) mentre siamo tra i primi per rialzo degli affitti e quantità degli sfratti, in gran parte per morosità. La casa costituisce oggi, insieme al taglio ed alla privatizzazione dei servizi, una forma di sottrazione di reddito a milioni di famiglie. L’altra faccia dell’impoverimento diffuso di settori popolari e di larghe fette di ceto medio.
Le due facce della questione salariale, messe insieme in due manifestazioni contigue e sorelle, esprimono la condizione reale di milioni di lavoratori. Ad esse si risponde in una forma completamente diversa rispetto a quella che sta realizzando il governo Letta. Occorre rompere con la spirale dell’austerity, la depressione dei consumi e la conseguente deindustrializzazione del paese ed aprire una grande vertenza nazionale sul salario ed il reddito. Al centro c’è la necessità di una inversione di rotta della politica economica ed una rottura dei vincoli con l’Europa.
Attorno a questa grande questione sociale si stanno saldando anche le tante vertenze locali che in questi anni sono cresciute intorno alla difesa del suolo e dell’ambiente ed in favore del diritto delle popolazioni a poter decidere del proprio ambiente di vita. A cominciare dalla emblematica battaglia dei valsusini che è ormai diventata una grande vertenza in difesa del territorio e per la democrazia. Questa saldatura non è il frutto della semplice necessità di unire le forze ma il prodotto di una idea comune di società e di come affrontare la crisi.
La messa in sicurezza del territorio, il rimboschimento, la tutela de mare, lo sviluppo della filiera agroalimentare a km zero, la ristrutturazione del patrimonio edilizio scolastico, l’utilizzo di quello abitativo sfitto o abbandonato, l’esaltazione del nostro inestimabile patrimonio artistico, il rilancio della ricerca pubblica, del trasporto pubblico, della sanità pubblica sono alcuni dei terreni fondamentali sui quali rimettere in moto l’economia del paese. Ma a farlo devono essere non gli appetiti speculativi privati che in questi anni hanno devastato il territorio, si sono impossessati di settori strategici dell’economia ed hanno lucrato sui bisogni vitali della popolazione. Non un piano di grandi opere dannose o di grandi eventi che succhiano risorse locali, promuovono solo lavoro precario e lasciano in eredità edifici ed impianti abbandonati al degrado.
Le mobilitazioni di ottobre costituiscono la riproposizione di una grande ed urgente questione sociale ma sono anche piene di risposte, elaborate dal basso, di come affrontarla e risolverla. Ad esse finora si sta rispondendo in modo autistico. Si finge di non sapere che esse sono portatrici di contenuti e rivendicazioni precise e le si descrive come un pericolo. Un modo classico, che sa di regime, per evitare di affrontare i problemi.
Queste mobilitazioni pongono pertanto anche un altro grande tema, forse ancora più serio dei precedenti e ad essi strettamente collegato, quello della democrazia.
Democrazia sui posti di lavoro, violentemente negata dal recente accordo tra sindacati concertativi e Confindustria per assicurarsi il monopolio della rappresentanza ed impedire ai lavoratori di scioperare ed esprimere il loro dissenso. Democrazia nella gestione delle città e del territorio, dove ai cittadini viene sistematicamente impedito di esercitare il proprio sacrosanto diritto a decidere sul destino della propria terra e l’uso e la distribuzione delle risorse. Democrazia in un paese che ha perduto la propria sovranità ed è costretto ad ingoiare i diktat di un’Europa dove a decidere sono i vertici delle banche e la cancelleria tedesca.
Questione salariale, questione sociale e democrazia: ecco la piattaforma generale delle mobilitazioni di ottobre. C’è in questa piattaforma la difesa della Costituzione?, qualcuno ci chiede. C’è se per Costituzione intendiamo i principi mai attuati che sono l’ossatura ideale della carta del ’47. Molto meno se pensiamo alle recenti modifiche che ne hanno snaturato buona parte dell’ispirazione originaria.
E c’è infine un obiettivo politico a fare da cornice alle giornate di ottobre. Costruire una vasto e articolato fronte di lotta che sappia far crescere un tessuto organizzato e duraturo. La lotta che abbiamo di fronte è lunga e difficile, impensabile affrontarla in ordine sparso. Coordinare gli sforzi per far crescere un grande movimento radicale e indipendente, diffuso nei posti di lavoro, nelle scuole, nelle città è il nostro progetto: il 18 e il 19 ottobre possono rappresentare le date d’inizio di questa sfida.