Ci
sono due statue nei Balcani che, se potessero parlare,
racconterebbero che cos’è davvero il diritto internazionale. Le
statue erette a furor di popolo sono, in Croazia, quella del fu
ministro degli esteri della Germania Dietrich Gensher, del quale
troneggia dal 1994 un busto sull’isola di Brac, e a Pristina in
Kosovo quella in bronzo dell’ex presidente statunitense Bill
Clinton. Il primo, Gensher, in aperta violazione del diritto
internazionale, fomentò, sostenne e finanziò la nascita del nuovo
Stato croato che, come la Slovenia, dopo referendum si era
autoproclamato indipendente su base etnica, (la Slovenia era «la
patria degli sloveni» e la Croazia quella «dei croati», in poche
parole, l’inizio della pulizia etnica).
La Germania e con lei, subito, il
Vaticano non si curarono del fatto che esisteva ancora la
Federazione jugoslava, con seggio all’Onu, con un governo e la
presidenza Markovic che inutilmente correva nelle capitali
europee per farsi sostenere nel tentativo di salvare l’istituzione
federale mentre la guerra era già scoppiata. Non solo, la Germania
sostenne le nuove piccole patrie e le milizie nazionaliste,
incurante della voragine sanguinosa che si sarebbe aperta nella
Bosnia Erzegovina dove tutte le etnie, religioni e lingue erano
rappresentate. Certo, la Jugoslavia si distrusse in gran parte da
sé grazie ai suoi nazionalismi armati, ma non senza il fattivo
«contributo» dell’Occidente (allora gli Usa erano restii, ma la
preoccupazione durò poco e prevalse la realpolitik e la
rincorsa alla diplomazia criminale della nascente Unione europea
che pure aveva deciso che, dopo l’89, non si sarebbero dovuti
riconoscere stati proclamati con l’uso della violenza, in modo
antidemocratico e con l’esclusione delle minoranze). Così L’Europa
legittimando i nuovi stati etnici, aprì il vaso di Pandora della
trasformazione dei vecchi confini amministrativi jugoslavi in
nuovi confini nazionali.
Fu la prima manomissione delle
frontiere nel Vecchio continente dalla fine della Seconda guerra
mondiale e dopo il crollo del Muro di Berlino.
Poi c’è il monumento
bronzeo di quasi tre metri ad un ridente Bill Clinton che troneggia
nel centro della capitale della nuova nazione del Kosovo, da lui
stesso inaugurato nel 2009. Una nazione autoproclamata nel 2008
e subito sostenuta e appoggiata dagli Stati uniti e dalla Nato.
L’Alleanza atlantica è stata
protagonista nel 1999 di una guerra di bombardamenti aerei «a
scopo umanitario» che durarono 78 giorni e provocarono 3.500
vittime civili tra i kosovari i serbi. Fu una guerra senza alcuna
approvazione dell’Onu, in aperto disprezzo del diritto
internazionale. Lo Stato del Kosovo, il cui riconoscimento ancora
divide l’Onu e l’Ue, è sostenuto a spada tratta da Washington
e grazie alla guerra atlantica non esisterebbe. Dov’è il diritto
internazionale? È stracciato, calpestato macchiato di sangue:
è diventato un delitto internazionale. Allora, com’è possibile che
l’opinione pubblica e la stampa libera (ma esiste ancora?) non resti
allibita dalle dichiarazioni indignate americane sul fatto che il
referendum in Crimea violerebbe «il diritto internazionale»?
Gli Usa hanno scatenato guerre
invadendo l’Iraq e l’Afghanistan che sono a decine di migliaia di
chilometri dalle frontiere americane. Mentre la «perfida»
Russia, alla quale probabilmente si rimprovera di non essere morta
dopo l’implosione dell’Urss e di essersi in qualche modo ricostruita
come potenza economica, difende la sua sicurezza ai propri confini
e le popolazioni a tutti gli effetti russe, di fronte anche alla
pericolosa strategia dell’allargamento della Nato a Est che già ha
conosciuto nella crisi in Georgia del 2008. Putin non è un modello per
nessuno, omofobo e impegnato a negare diritti, democrazia e libera
informazione e questo arroccamento antidemocratico nel
perdurare della crisi ucraina è destinato a peggiorare. Ma sono
forse un modello gli Usa, anche quelli di Obama, che hanno truppe che
occupano altri paesi (ancora in Iraq e sempre in Afghanistan), che
non chiudono Guantanamo, che hanno commesso crimini di guerra
e massacri per i quali approfittano di una globale impunità oltre
che dei silenzi di una informazione mainstream. Mentre Washington
dichiara la riduzione delle spese ufficiali militari ma aumenta
l’impegno finanziario per le «guerre coperte», vale a dire le tante
destabilizzazioni in corso nel mondo e delle quali hanno tanto
parlato Snowden e Assange (vedi il Venezuela).
Oggi la Crimea, a stragrande
maggioranza russa, vota il referendum per l’indipendenza e/o
l’adesione alla Russia. L’indignazione sul pronunciamento non può
non tenere conto del fatto che questo accade dopo la rivolta violenta
di Majdan che si è caratterizzata proprio per l’ultranazionalismo
ucraino contrapposto alla Russia e anche per la gestione interna,
violenta e a volte anche armata, di forze d’estrema destra
neofascista. Una rivolta che ha realizzato la sua prova di forza
con la cacciata del corrotto premier Yanukovich, che però era stato
eletto democraticamente nel 2010 secondo Ue, Onu e Osce, votato
soprattutto dalle regioni ucraine dell’est che, ora, per tutto questo
non si riconoscono nel nuovo potere autoproclamato a Kiev.
Ma chi ha eletto il neo-premier
Yatsenyuk che viene ricevuto e legittimato nella Sala ovale della
Casa bianca da Obama? E soprattutto chi rappresenta? Non certo le
regioni dell’est ucraino. Allora che dovrebbero fare in Crimea, in
assenza di mediazioni internazionali che impediscano questa
rottura innescata a Kiev, se non rivendicare la loro «alterità»?
Manca in assoluto il ruolo dell’Ue, la cui incapacità a rispondere
concretamente con finanziamenti alle prime richieste di adesione
di Yanukovich è all’origine della precipitazione degli eventi, con
la scelta dell’ex presidente ucraino di rivolgersi allora a Mosca,
subito pronta ad un mastodontico sostegno cash e per una cifra che
solo ora promette quel Fmi che ha già devastato l’Ucraina con i suoi
diktat sociali.
Colpiva in questi giorni nel
disaccordo espresso a Londra tra Lavrov e Kerry una grande cautela
americana, dimostrata anche di fronte alla irresponsabile
richiesta di «aiuto militare» venuto proprio da Yatsenyuk, con
l’insistenza, «per ora», sulla soluzione diplomatica. È ancora così,
c’è ancora spazio. Il referendum di oggi infatti non è l’ultima
spiaggia, non siamo ancora ai fuochi accesi di «Guerra e pace» di
Tolstoi che nel 1854 fu testimone della guerra in Crimea. C’è ancora
la possibilità per una soluzione diplomatica, perché il
risultato scontato del referendum possa venire usato, in una
trattativa che salvaguardi l’integrità territoriale dell’Ucraina
e sia solo una sua nuova rappresentazione federale, per un’Ucraina
neutrale e fuori dalla Nato. Altrimenti la fredda guerra diventerà
calda, subito con embarghi e sanzioni economiche contrapposte
sul terreno decisivo delle forniture d’energia. E allora addio anche
alla nostrana sedicente «svolta buona».
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