Pubblichiamo l'intervento di Fabio Bentivoglio al convegno
"1914-2014: Cento anni di guerre", tenuto a Napoli il 4-12-14,
organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dal Rotary
Club.
(M.B.)
Guerra, ideologia e tecnica
Fabio Bentivoglio
I
cento anni di guerra (1914-2014) oggetto della nostra attenzione sono
scanditi dalla Prima e Seconda guerra mondiale (1914-1918 e
1939-1945), dalla guerra fredda (1945-1991) e, in seguito, da un
ciclo di guerre indicate in forma generica con varie dizioni: “guerra
infinita”, “guerra globale” “guerra al terrorismo”… È
mio intento cogliere dal punto di vista storico gli aspetti di
continuità e discontinuità del fenomeno “guerra”, riguardo
l’origine dei conflitti,
l’ideologia e la
tecnica.
Origine
dei conflitti
Uno
dei rari casi in cui nella storia è possibile registrare una
costante, confrontando anche epoche molto lontane, è proprio quello
sulla natura delle dinamiche che danno origine alle guerre: le guerre
sono state e sono espressione di progetti politico-militari
riconducibili a dinamiche economiche, di potere, predominio,
ricchezza, controllo del territorio e simili. Ovviamente ogni epoca
storica si differenzia dalle altre per la configurazione dei rapporti
economici e per le forme di potere, ma i moventi che determinano le
guerre hanno una matrice comune. Se in età feudale le guerre erano
espressione di conflitti tra settori delle aristocrazie che si
contendevano le rendite feudali - soprattutto nelle fasi in cui tali
rendite declinavano - in età moderna i nuovi orizzonti geografici ed
economici generano nuovi conflitti: si pensi alla guerra di
successione spagnola (1700-1713), vera e propria prima guerra
mondiale della storia moderna, la cui posta in gioco riguarda,
attraverso la successione spagnola, il controllo dei traffici delle
Americhe e di quelli dell’Africa e dell’Asia collegati con le
Americhe. Insomma, mutano i quadri storici e mutano le forme
attraverso cui i poteri dominanti esercitano la loro egemonia, ma
nella sostanza non mutano le leve che muovono le guerre: sono leve
antiche, come antica è l’arte della guerra che si ispira al
principio del divide et impera.
Ciò vale, come vedremo, anche nel 2014.
Le
“cause” della guerra
Corollario
del tema della guerra è l’indagine sulle “cause” all’origine
dei conflitti. In sede storica “causa” è un termine da usare con
attenzione: nell’ambito della scienza fisica e in Natura il termine
rimanda alla sfera della necessità (il
Sole è causa
dell’evaporazione delle acque) mentre nell’ambito delle vicende
umane siamo nella sfera della libertà
per cui il termine va interpretato nel quadro di scelte frutto della
libera volontà degli uomini. Pertanto, le analisi tese alla
comprensione di quel fenomeno specificatamente umano che è la
guerra, più che alle cause, devono mirare a identificare il
contesto, o meglio, il progetto strategico che si prefigge uno Stato
o un potere politico-economico dominante, perché è tale progetto
che fa sì che un determinato evento o fatto diventi poi “causa”
di guerra.
Non
c’è alcuna necessità che l’attentato all’arciduca Francesco
Ferdinando il 28 giugno 1914, a Sarajevo, diventi la “causa”
della Prima guerra mondiale: lo diventa nel momento in cui, conclusa
l’eccezionale fase di espansione economica 1896-1905, si
restringono i mercati di sbocco generando tensioni tra le maggiori
potenze economiche dell’epoca (Germania, Francia, Inghilterra,
Russia…) non più risolvibili con mediazioni politiche. Lo stato
maggiore tedesco dispone fin dal 1905 di un accurato piano militare
(il cosiddetto “piano Schlieffen”) per condurre una guerra di
annientamento contro Francia e Russia. È un progetto che mira ad
annientare la potenza finanziaria della Francia e a impadronirsi
delle risorse minerarie (zinco e piombo) della Polonia russa. La
“causa” della guerra, dunque, non è l’attentato a Francesco
Ferdinando (vicenda, tra l’altro, tutta interna alle irrisolte
tensioni dell’Impero austro-ungarico) ma, in ultima istanza, è il
progetto politico, militare ed economico tedesco - non compatibile
con analoghi progetti di Francia, Inghilterra e Russia - che ha
incorporata la guerra.
È
dunque il progetto strategico politico-militare-economico che fa
diventare un evento “causa” di guerra e non viceversa! È
necessario attenersi a tale criterio metodologico per comprendere
anche le guerre contemporanee. Non dimentichiamo in merito la lezione
della filosofia: il “comprendere” –insegna Kant- consiste nel
“sussumere il particolare nell’universale”.
Se ad esempio osserviamo attentamente la tesserina (il particolare)
di un mosaico (l’universale) la “comprensione” di quella
tesserina passa attraverso la visione generale del mosaico di cui
essa è parte. Un’osservazione isolata della tesserina potrà
portare a conoscerla nei minimi dettagli e nelle sue più recondite
sfumature, ma non certo a comprenderla. Questo tipo di approccio
parziale caratterizza la nostra epoca dell’immagine: le guerre sono
poste all’attenzione pubblica moltiplicando e replicando immagini
sempre più dettagliate, senza però fornire la connessione di tali
immagini con il “mosaico” di cui sono parte e che solo potrebbe
consentirne la comprensione (a evitare equivoci ricordiamo che, in
sede storica, comprendere non è sinonimo di giustificare). Gli
episodi di una guerra sono compresi se letti alla luce della totalità
storica (l’universale) che li ha prodotti, diversamente osserviamo
frammenti sparsi che generano disorientamento, così da creare lo
spazio per la diffusione di facili e superficiali schemi di lettura.
IDEOLOGIA
Gli
eserciti delle due guerre mondiali, diversamente da quelli che hanno
combattuto le guerre precedenti, sono costituiti non da apparati
militari separati dalla società civile ma da milioni di uomini
sottratti alle loro professioni per combattere una “guerra totale”.
I poteri politici e militari dei paesi belligeranti imposero una
riorganizzazione della vita collettiva in funzione esclusiva dello
sforzo bellico con conseguente militarizzazione della società ed
enormi sacrifici e privazioni per la popolazione. Per realizzare
progetti di tale portata è necessario il consenso dell’opinione
pubblica e quindi - ecco l’ideologia - rappresentare e divulgare le
finalità della guerra facendo appello a valori e ideali condivisi
dalla comunità. Affinché l’obiettivo della “vittoria totale”
sia accettabile a livello di massa è cioè necessaria un’
ideologia “forte”, perché deve fornire alla popolazione e ai
milioni di uomini sradicati dalla vita civile e inviati al fronte,
una motivazione che li possa sostenere anche psicologicamente nelle
spaventose e terrorizzanti condizioni di guerra, in cui la vita è
sempre in pericolo.
Nel
corso della Prima guerra mondiale si diffonde nella società europea
una cultura per la quale la guerra è guerra tra il bene e il male:
ogni schieramento, ricorrendo alla propria tradizione culturale
identifica se stesso come il bene in contrapposizione al nemico-male.
Nei Paesi dell’Intesa l’ideologia della Prima guerra è
incentrata essenzialmente sull’idea della difesa della democrazia e
della patria (si ripete all’epoca: “chi
per la patria muor, vissuto è assai”):
l’argomento più ricorrente era quello di attribuire ai tre Imperi
l’intento di voler distruggere Inghilterra, Francia e Belgio
proprio perché nemici dei principi democratici. Nel mondo tedesco si
replicava a questa rappresentazione della guerra denunciandone la
falsità con l’argomento che l’Intesa era alleata con la Russia
zarista, paese autocratico e feudale. Il vero obiettivo dell’Intesa,
dicono gli intellettuali tedeschi, non è la civilizzazione
democratica ma livellare le diversità storiche e quindi distruggere
la Germania e le sue tradizioni storiche, identificate con le
tradizioni medioevali e con la spiritualità luterana. “L’esistenza
tedesca è il nostro obiettivo di guerra, non il profitto”
scrive Max Weber nel 1916. La guerra è interpretata come una
drammatica contrapposizione di opposte visioni del mondo, come una
vera e propria “guerra di religione e di fede”. In questo scontro
epico, gli individui, in entrambi gli schieramenti, sono chiamati a
rinunciare alla loro personale individualità e diventare strumenti
passivi di ordini superiori. In entrambi gli schieramenti l’ideologia
occulta le vere ragioni di una guerra scatenata dagli aggressivi
interessi economici dei protagonisti, in primo luogo dalla Germania.
Analogo
discorso - circa la connotazione forte dell’ideologia - vale ancor
di più per la Seconda guerra mondiale: la guerra come scontro
“democrazia versus dittatura” ha il suo riflesso nelle coscienze
di uomini che consumano la loro esistenza nel tragico scenario degli
orrori dei fascismi e della dittatura staliniana. Questa ideologia ha
già in pectore la successiva fase della guerra fredda.
L’ideologia
nel dopo guerra fredda
Se
confrontiamo le rappresentazioni ideologiche che caratterizzano il
ciclo di guerre successivo alla guerra fredda con la precedente fase
storica, notiamo sia aspetti di continuità sia di forte
discontinuità.
La
discontinuità ha la sua genesi nella composizione degli eserciti:
non più milioni di uomini proiettati sul fronte di battaglie
infernali ma truppe di professionisti addestrati all’uso di
sofisticati sistemi d’arma con il ricorso sempre più frequente e
massiccio a schiere mercenarie di contractor
programmati per la guerra. Viene meno l’esigenza di un’ideologia
“forte”, ad ampio spettro: per questa tipologia di militari,
diversamente dal passato, l’ideologia si riduce a coltivare lo
“spirito di corpo”, perdendo anche questa residua valenza nel
caso dei contractor. La continuità, circa il ruolo dell’ideologia,
consiste nell’assolvere la funzione di garantire il consenso della
pubblica opinione circa la necessità di operare su lontani teatri di
guerra in nome di minacce che non attentano più i confini della
patria. La regina della divulgazione ideologica della nostra epoca è
l’immagine veicolata attraverso la rete mediatica globale. È il
mezzo vincente che ha scalzato dal trono la parola scritta di altri
tempi. Nel corso delle guerre del Novecento l’uso
dei media c’è sempre stato, ma il dibattito si svolgeva
essenzialmente sui giornali, tra élite dotate di strumenti
culturali. Sotto questo riguardo è stato il fascismo ad aprire la
stagione moderna della comunicazione, attraverso l’utilizzazione di
cinema, radio e sport come veicoli di propaganda. Oggi la rete
mediatica è globale: la decapitazione dell’ostaggio o l’esecuzione
brutale di persone inermi, entra in tutte le case. Il linguaggio
delle immagini è universale, più diretto della parola: non è un
caso che sia utilizzato indistintamente con lucida strategia da tutti
gli attori delle guerre in corso. L’abitudine indotta dall’immagine
veicolata dalla rete mediatica globale, priva di qualsiasi mediazione
ragionata, ha prodotto l’effetto di radicare nelle coscienze il
principio per cui esiste solo ciò che si vede con gli occhi. Ancora
una volta: vediamo i particolari, i frammenti, la “tesserina”,
con gli occhi, ma non siamo più abituati a “vedere” con gli
occhi della mente il mosaico di cui quei frammenti sono parte.
Un
altro aspetto di discontinuità che caratterizza le attuali
rappresentazioni della guerra rispetto alle ideologie della Prima e
Seconda guerra mondiale e poi della guerra fredda è il venir meno di
un’immagine ben identificata del Nemico contro cui combattere.
L’URSS e la minaccia dell’espansione del comunismo erano il
Nemico indicato dalla propaganda delle democrazie occidentali negli
anni della guerra fredda; specularmente, per il blocco comunista, il
Nemico era l’imperialismo americano e i suoi alleati. Ad oggi
l’immagine del Nemico dal volto riconoscibile è evaporata: sotto
questo riguardo, proprio nell’età dell’onnipotenza della
tecnica, la rappresentazione della guerra è regredita a immagini di
stampo medioevale con l’aggravante che in età medioevale quelle
immagini avevano un senso decodificabile attraverso il linguaggio
universale della religione, mentre oggi galleggiano nel nulla.
Emblematica la frase del presidente George Bush J. che nel 2001, in
occasione della guerra in Afghanistan (predisposta dai comandi
militari americani fin dal 1998, sotto la presidenza Clinton) così
individua il nemico da sconfiggere: ”Abbiamo
di fronte il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della
terra”! Non siamo minacciati da Stati o da
poteri costituiti (come esigerebbe la parola “guerra” usata
correttamente), ma da entità quasi demoniache. Analogamente Russia e
Cina nel 2001 creano l’OCS (Organizzazione della Cooperazione di
Shangai) con l’obiettivo di garantire la sicurezza regionale e di
combattere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo definiti
“le tre forze maligne”.
Abbiamo dunque a che fare con il male (e questa non è una novità
quando si parla di guerre) ma non più un male dal volto
riconoscibile (e questa è una novità!). In un recente intervento
per indicare i punti di riferimento della strategia degli Stati
Uniti, Obama ha indicato, nell’ordine, la Russia, la furia bestiale
dell’ISIS e l’ebola (!), associando in una sorta di connubio
premoderno il male prodotto da un’epidemia a un “male” che
meriterebbe ben altre analisi.
La
scarsa credibilità delle versioni ufficiali presso l’opinione
pubblica
Un
fenomeno di recente formazione rispetto all’immagine che si intende
divulgare della guerra è il crollo della credibilità delle versioni
ufficiali circa la necessità e i risultati delle operazioni
politiche e militari. Che il ciclo di guerre post guerra fredda abbia
lo scopo di realizzare idealità che si richiamano alla democrazia,
alla pace o a interventi umanitari è veramente creduto da pochi.
Anche il più semplice degli osservatori oggi diffida di questa
vulgata circa le motivazioni della guerra e, se richiesto di un
parere in merito, ci direbbe, brutalmente, che le guerre sono fatte
per il petrolio. Il quadro è certo più complesso, ma la percezione
comune della “causa” delle guerre in corso non si discosta da
questa convinzione. Che tale sostanziale verità storica sia poi
soffocata dalla “volontà di credere” alle guerre umanitarie,
agli scontri di civiltà o a simili amenità è altra cosa.
Si
rifletta su una vicenda che molti ricorderanno. Seconda guerra del
Golfo: Colin Powell - ai massimi vertici del potere militare e
politico degli Stati Uniti dal 1987, artefice della politica estera
di Bush dal 2001 al 2005 - il 2 febbraio 2003, in veste di Segretario
di Stato, mostra all’ONU le “prove” delle armi batteriologiche
in possesso di Saddam per motivare l’urgenza della guerra all’Iraq.
Nell’ottobre 2008 Powell dichiarerà pubblicamente che quel 2
febbraio 2003 “È stato il giorno più umiliante della mia
carriera”, per aver dovuto esibire prove false per giustificare
l’intervento armato degli Stati Uniti in Iraq (con conseguenze
catastrofiche per l’incolpevole popolazione civile). Ebbene,
nonostante questa pubblica e scandalosa ammissione, l’opinione
pubblica occidentale non è scossa da alcun moto di indignazione.
Eppure in quei giorni fu martellante la propaganda che giustificava
la guerra per salvare la civiltà da un tiranno sanguinario armato di
armi letali. Perché le dichiarazioni di Powell non hanno suscitato
reazioni indignate, squalificando anche un personaggio il cui operato
aveva contribuito a determinare una tragedia umanitaria di
proporzioni inaudite? La risposta è semplice: nessuno, già nel
2003, credeva alla versione ufficiale delle “prove”, per cui quel
che si è saputo ufficialmente nel 2008 non ha turbato le coscienze.
L’ideologia della guerra condotta per valori democratici o
umanitari è un velo sottile che copre coscienze intorpidite.
Gli
anni del tornante storico decisivo: 1989-1991
Atteniamoci
al criterio metodologico di cui si è detto all’inizio e
individuiamo il contesto strategico entro cui si consumano le guerre
attuali; la continuità rispetto alle guerre del passato riguarda i
moventi reali all’origine dei conflitti, mentre radicale è la
discontinuità per quanto riguarda la tecnica e i sistemi d’arma.
Procediamo con ordine e fissiamo le date di riferimento del tornante
storico decisivo, quello in cui si delinea l’orizzonte geopolitico
del nostro tempo. È in sostanza il passaggio dalla guerra fredda al
dopo guerra fredda. Un passaggio che determina il riorientamento
strategico della Nato1:
1989,
crollo del Muro di Berlino
1991,
luglio, si scioglie il patto di Varsavia
1991,
26 dicembre, si dissolve l’Urss
1991,
Prima guerra del Golfo: è la prima guerra che, nel periodo
successivo al secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti non
motivano con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del
comunismo. Consente agli Stati Uniti di rafforzare la loro presenza
militare nell’area strategica del Golfo, dove si concentra la gran
parte delle riserve petrolifere mondiali.
Ma
qual è il nuovo quadro strategico entro cui collocare questo nuovo
ciclo di guerre? La fonte cui attingere sono i documenti pubblici
della Casa Bianca, del Dipartimento della Difesa o delle Commissioni
del Pentagono. Qui ci limitiamo a citare un documento interno stilato
nel febbraio del 1992 da Paul D. Wolfowitz, (stretto collaboratore
del Presidente George Bush senior) che costituisce il modello di
riferimento di tutti i successivi documenti ufficiali in cui si
delinea la strategia militare degli Stati Uniti. Dopo aver definito
la guerra del Golfo “il primo conflitto del dopo guerra fredda, un
evento determinante nella leadership globale degli Stati Uniti” si
indicano e pianificano gli obiettivi della nuova strategia:
“In
Medio Oriente e nell’Asia sud-occidentale il nostro obiettivo
generale è quello di rimanere la potenza esterna predominante e
preservare l’accesso statunitense e occidentale al petrolio della
regione […] Come è stato dimostrato dall’invasione irachena del
Kuwait, resta di fondamentale importanza impedire che una potenza
egemone o una coalizione di potenze domini la regione.” Tale
strategia sarà adottata in tutte le “regioni critiche per la
sicurezza degli Stati Uniti, le quali comprendono l’Europa, l’Asia
orientale, il Medio Oriente, l’Asia sud-occidentale e il territorio
dell’ex Unione Sovietica. Abbiamo in gioco importantissimi
interessi anche in America Latina, Oceania e Africa subsahariana. […]
il nostro obiettivo primario è impedire il riemergere di un nuovo
rivale sul territorio dell’ex Unione Sovietica o altrove, che ponga
una minaccia nell’ordine di quella posta precedentemente
dall’Unione Sovietica. La nuova strategia richiede che noi operiamo
per impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui
risorse sarebbero sufficienti, se controllate strettamente, a
generare una potenza globale. Tale strategia deve essere attuata nei
confronti non solo di qualsiasi potenza ostile, ma anche dei paesi
industriali avanzati, per dissuaderli dallo sfidare la nostra
leadership o cercare di capovolgere l’ordine politico ed economico
costituito. Infine dobbiamo mantenere i meccanismi per scoraggiare i
potenziali competitori anche dall’aspirare a un maggior ruolo
regionale o globale” ( Defense Planning
Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, “The
New York Times”, 8 marzo 1992. Il documento è citato da Manlio
Dinucci “Il potere nucleare”, Fazi Editore 2003, p. 112).
Linguaggio
e scopi reali; linguaggio e scopi ideologici
Due
considerazioni. La prima: si noti lo scarto esistente tra questo
linguaggio asciutto e pragmatico, che è poi quello reale che
determina i fatti, e il linguaggio retorico dell’ideologia,
destinata al pubblico, in cui si ricorre a improbabili scontri di
civiltà, a disquisizioni sui testi sacri e quant’altro. Tutti i
protagonisti di queste guerre hanno in comune l’appartenenza alla
medesima “inciviltà” del denaro e del potere (emblematica la
storia della famiglia Bin Laden e dei suoi stretti rapporti di affari
con la famiglia texana dei Bush); diverso è il modo con cui ciascun
attore rappresenta a se stesso - l’ideologia, appunto - i fini dei
propri atti di guerra, attingendo ciascuno in forma strumentale alla
propria tradizione culturale. Democrazia e libertà da un lato,
linguaggio religioso (le masse mussulmane sono educate a tale
linguaggio) dall’altra.
La
seconda considerazione: si è fatto cenno, all’inizio, alla
genericità delle formule con cui è indicato il ciclo di guerre che
ha preso avvio dopo la fine della guerra fredda, per cui si parla di
guerra al terrorismo, guerra infinita, globale ecc… . La ragione è
che si tratta di formule ideologiche che non corrispondono alla vera
natura della guerra il cui scopo - indicato nel documento citato - è
di ampliare la presenza militare e il controllo politico da parte
degli Stati Uniti nelle aree mediorientale e centroasiatica. La
dizione “guerra al terrorismo”, se non come metafora, è priva di
senso: una guerra è un confronto militare tra Stati o comunque tra
centri di potere sovrano. Il “terrorismo”, poi, non è alcunché
di unitario, ma consiste in una particolare natura e finalità
dell’atto di violenza della più diversa origine. Se il termine
guerra perde ogni specificità semantica e lo si utilizza in senso
metaforico allora si potrebbe parlare anche di guerra alla mafia,
alla droga ecc… . Ma ciò implicherebbe anche azioni conseguenti:
la “guerra” alla mafia, ad esempio, implicherebbe non certo l’uso
di missili e portaerei, ma piuttosto di esperti ragionieri che
verificassero l’origine dei flussi finanziari delle banche e il
riciclaggio del denaro, e di un potere politico degno di questo nome
che scardinasse i paradisi fiscali e offrisse alla popolazione
occasioni di lavoro tali da prosciugare il bacino di arruolamento
della mafia. Non diverso il discorso sul terrorismo che si alimenta
di circuiti finanziari internazionali e di un traffico d’armi che
vede protagoniste tutte le grandi potenze del pianeta. La scelta
militare di intervenire con missili e bombardamenti per sconfiggere
il terrorismo ha lo stesso senso che avrebbe bombardare Milano, Roma,
Napoli e Palermo causando la morte di migliaia di civili, perché in
tali città sono operanti potenti cellule mafiose e camorriste. Non
si cada nella trappola di pensare che si tratti di scelte sbagliate
rispetto all’obiettivo dichiarato a livello mediatico; l’obiettivo
vero, in tutta evidenza, è un altro ed è quello indicato nel
documento di cui sopra. Ecco perché, allora, i bombardamenti hanno
un senso ed ecco perché la guerra sarà “infinita” e globale: si
tratta di garantire occupazione permanente del territorio, impianto
di basi militari a scopo logistico, destabilizzazione di Stati che
oppongono resistenza ecc. … A tale scopo ci vogliono missili e
bombe che oltre alla morte semineranno odio e rancore presso la
popolazione e ciò, con tragico circolo vizioso, alimenterà gli atti
terroristici.
La
guerra in Jugoslavia
Tornando
al nostro documento, il nuovo concetto strategico viene messo in
pratica nei Balcani nel luglio 1992: è la guerra in Jugoslavia
sostenuta con grande impegno dall’Italia che la giustifica
ideologicamente con motivi umanitari. È la guerra che inaugura
l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia
e dell’ex Unione Sovietica. Inizia “la conquista dell’Est”:
gli Stati Uniti riescono nel loro intento di sovrapporre a un'Europa
basata sull’allargamento dell’Unione Europea un'Europa basata
sull’allargamento della Nato, perché, ricordiamolo, il Comandante
supremo alleato in Europa è un generale statunitense nominato dal
Presidente, e tutti i comandi strategici sono controllati
direttamente dal Pentagono. Quindi “entrare in Europa” significa
entrare nella Nato e quindi porsi sotto il diretto controllo militare
- e non solo - degli Stati Uniti.
E
l’Italia? In quegli anni decisivi anche l’Italia si allinea al
“nuovo modello di difesa”. Anche in questo caso facciamo parlare
i documenti ufficiali. Ottobre 1991, rapporto
Modello di Difesa e Lineamenti di sviluppo delle FFAA negli anni ’90
stilato durante il settimo governo Andreotti:
“Considerata
la significativa vulnerabilità strategica dell’Italia soprattutto
per l’approvvigionamento petrolifero, gli obiettivi permanenti
della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela
degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali
termini, ovunque sia necessario, in particolare di quegli interessi
che direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del
sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per la
conservazione e il progresso dell’attuale assetto politico e
sociale della nazione”.
Nel
1993, mentre l’Italia partecipa all’operazione militare lanciata
dagli USA in Somalia, lo Stato maggiore della difesa dichiara che
“occorre essere pronti a proiettarsi a lungo
raggio per difendere ovunque interessi vitali al fine di garantire il
progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle
fonti e vie di rifornimento energetici e strategici”.
La demolizione dello Stato libico nel 2011 è un’altra tappa di
questa strategia. Sarebbe, però, da discutere quale sia davvero “il
progresso e il benessere nazionale”: allo stato delle cose la Libia
è precipitata nel caos con la conseguenza, tra l’altro, di
alimentare drammatici flussi migratori verso l’Italia. Insomma:
l’articolo 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”) viene
definitivamente consegnato alla storia come ricordo di un tempo che
fu.
Questo
è il progetto strategico, politico, militare ed economico che
costituisce il mosaico di cui le guerre in corso sono le tesserine
che lo compongono. È un progetto che in tutta evidenza incorpora la
guerra, perché muove da un’affermazione unilaterale di governo del
mondo incompatibile con un quadro globale caratterizzato da un nuovo
ordine (o disordine?) mondiale che vede emergere nuove grandi potenze
come Russia e Cina, India, Brasile…; l’approccio corretto non
consiste nello stabilire chi sono i buoni e chi sono i cattivi, ma
nel recuperare un sano realismo storico che si ispiri al valore della
giustizia, per cui è urgente liberarsi dal dogma della competizione
economica globale che genera uno stato permanente di conflittualità
e non più sostenibile sia a livello sociale che ambientale. È
necessario elaborare un progetto di convivenza globale compatibile
con una nuova realtà storica che ha nell’Asia il suo centro
propulsore. Diversamente è guerra, per la quale non mancano certo le
“cause”.
TECNICA
Rimane
da affrontare l’ultimo dei temi indicato nella scaletta del nostro
incontro, concernente ruolo e natura della tecnica: nell’agosto
1945 Hiroshima e Nagasaki inaugurano l’era nucleare che segna una
discontinuità assoluta rispetto alle precedenti fasi storiche. Una
discontinuità che meriterebbe più di un approfondimento. Il diverso
statuto della tecnica contemporanea rispetto alla tecnica delle età
precedenti è stato oggetto di riflessione da parte di giganti del
pensiero filosofico del Novecento quali Heidegger, Jonas, Anders,
Jaspers... In questa sede limitiamoci a porre il problema e ad
avviare una riflessione comune.
Negli
ultimi decenni abbiamo sperimentato quanto rapida sia stata
l’evoluzione della tecnica, e quanto abbia inciso in ambito
lavorativo, nelle attività quotidiane, modificando i nostri stili di
vita e le relazioni con gli altri. L’ambiente tecnologico in cui
inscriviamo le nostre azioni (navigatori, cellulari, tablet,
computer…) è il riflesso nella dimensione civile di quanto accade
nel cielo della ricerca militare. Sappiamo bene che il nostro
navigatore non è stato progettato per evitarci la fatica di chiedere
informazioni allo scopo di individuare la pizzeria dove ci
incontreremo con gli amici. Le costellazioni satellitari ci indicano
sì la pizzeria, ma sono nate per guidare bombe, aerei, missili e
quant’altro su obiettivi identificati. GPS
è la costellazione satellitare degli Stati Uniti; glonass
quella della Russia; beidou
quella cinese; Galileo
dovrebbe essere quella europea, ma di fatto, non svolge ancora
funzione attiva (e questo la dice lunga sull’autonomia dell’Europa
dagli Stati Uniti).
Sia
detto per inciso: quando ci serviamo del navigatore, il sistema
satellitare individua il nostro obiettivo con un margine di errore
indotto dal sistema stesso; solo i comandi militari dotati di codice
di accesso avranno l’indicazione puntuale del sito da individuare,
e questo per evitare che la costellazione satellitare sia utilizzata
da agenti ostili.
Ebbene,
se il ritmo dell’innovazione tecnologica nell’ambito delle
attività civili è incalzante, in ambito militare l’innovazione ha
un’accelerazione enormemente più rapida: ora c’è la corsa ai
missili antimissili, aerei non intercettabili dai radar, che, a sua
volta, attiverà la ricerca di radar che intercettano aerei non
intercettabili… Il margine di superiorità militare dura pochissimo
e le gigantesche spese di questo inarrestabile processo di
innovazione tecnologica è finanziato con fondi sempre tratti dalle
spese pubbliche supportate dallo Stato, non dal privato.
La
percezione della guerra e della morte mediati dall’apparato
tecnologico
Più
che di tecnica planetaria è corretto parlare di tecnologia
planetaria della distruzione che mira a uccidere e distruggere in
modi sempre più sofisticati e asettici. Questa connotazione
tecnologica assunta dai sistemi d’arma contemporanei ha modificato,
rispetto al passato, sia il modo di condurre le guerre, sia la nostra
percezione dell’orrore della guerra e della morte. Su quest’aspetto
riflettiamo davvero poco. Pensiamo all’attacco alla baionetta della
Prima guerra mondiale, con corpi sventrati e agonizzanti, oppure,
oggi, alla visione delle immagini di ostaggi decapitati dai
combattenti dell’Isis e divulgate dalla rete mediatica. Sono
visioni che provocano orrore assoluto, senso di rigetto e nausea. Ci
mancherebbe altro. Sono pratiche barbare che suscitano indignazione:
la morte violenta e atroce portata dalla guerra si mostra con il suo
vero volto, direttamente, senza mediazioni. Prendiamo il caso,
invece, assai più aggiornato, di un operatore in California che
seduto a una consolle dispone di uno strumento che somiglia a un
video gioco, guida a distanza di 14.000 km un drone armato e fa
partire un missile, diretto poi sull’obiettivo dal sistema di guida
satellitare. L’immagine asettica che a volte (poche) ci è data in
visione è quella di un’inquadratura con mirino puntato su qualcosa
di poco identificabile, poi coperto da una nuvoletta grigia,
accompagnato dal commento che è stato colpito un covo di terroristi
o qualcosa di simile. Domanda: queste immagini opache, unitamente
alla potenza tecnologica che sottintendono, suscitano orrore come nel
caso della baionetta nel ventre o della gola tagliata? No: sono
immagini che suscitano più stupore, meraviglia e soggezione a fronte
di tanta potenza “chirurgica” ma non orrore. La morte non si
“vede”, è lontana, anche se intuiamo che probabilmente in quella
nuvoletta di fumo sono state bruciate vittime innocenti. Non è
questa la sede per fare l’elenco delle tragedie immani prodotte dai
bombardamenti “intelligenti” o “chirurgici” nelle guerre di
quest’ultimo ventennio, ma chiunque può documentarsi.
Le
nuove frontiere della ricerca militare
Gigantesche
sono le spese per armamenti nucleari in grado di cancellare più
volte (!) ogni forma di vita: credo si intuisca la differenza tra il
dotarsi di 500 carrarmati in più del nemico e il dotarsi, ad
esempio, di nuove bombe nucleari (schierate dagli USA anche in
Italia) le B61-12 a guida di precisione da integrare con gli F35
(400-500 bombe, ciascuna in media con potenza 50 Kiloton, quattro
volte Hiroshima, costo 8-12 miliardi di dollari) che devono
sostituire le B 61 a caduta libera. Ma la ricerca sta andando ben
oltre le armi come le conosciamo oggi : armi elettromagnetiche,
laser, batteriologiche, e non abbiamo il tempo per aprire l’altra
drammatica pagina della cosiddetta “guerra ambientale”2.
Solitamente,
più si descrivono gli effetti catastrofici per la vita umana e per
l’ambiente dei sistemi d’arma in circolazione - e il riferimento
non è solo alle armi nucleari - più scatta una sorta di meccanismo
psicologico di autodifesa, che rassicura che tali armi non saranno
mai usate proprio per i loro effetti. Sarebbe opportuno cominciare a
invertire questa percezione, in considerazione del livello
insostenibile delle tensioni di guerra che caratterizzano questa fase
storica.
Il
fine dello sviluppo della tecnica è il suo potenziamento senza fine
e senza fini, ed è incorporato nella tecnica stessa
Concludiamo
con una riflessione su cui chiedo davvero attenzione. La questione
del potenziamento tecnico dei sistemi d’arma cui abbiamo fatto
cenno, non è inscrivibile sotto la specie della continuità,
rispetto alla storia degli armamenti. La tecnologia planetaria con
cui oggi abbiamo a che fare non è più lo strumento di cui l’uomo
si serve per conseguire i propri scopi, come la tecnica dei tempi
moderni. È qualcosa di profondamente diverso: il potenziamento della
tecnologia è un fine che, per capirci, non è posto dall’esterno,
ma è incorporato nella tecnologia stessa. Il potenziamento senza
fine e senza fini è il principio motore dello sviluppo, che si
autoalimenta. Tale accelerazione innovativa non ha precedenti nella
storia, e la conseguenza è di rendere obsoleti i sistemi d’arma
nel volger di tempi sempre più brevi. È una dinamica suicida: la
ricerca per l’innovazione tecnologica in ambito militare condiziona
i centri universitari e arruola i migliori
talenti, divorando una quantità gigantesca di
risorse sottratte al bene pubblico. Questo combinato disposto
(competitività globale e spese militari) prosciuga le risorse da
destinare ai beni pubblici e gli effetti sociali sono sotto gli occhi
di tutti: disoccupazione, fine dello Stato sociale, aumento indecente
delle diseguaglianze, mancanza di protezione per le fasce più deboli
ecc...
Gli
USA hanno una spesa militare intorno al 4,5% del PIL, l’Italia al
2%. In Italia, di fronte a qualsiasi richiesta che abbia per oggetto
un bene di natura pubblica, si ripete la litania della mancanza di
soldi. La Nato quantifica la spesa militare italiana in 52 milioni di
euro al giorno; Il Sipri (Istituto di Ricerca internazionale sulla
Pace di Stoccolma) la valuta intorno ai 70 milioni. Su scala globale
la spesa è 3 milioni di dollari al minuto. Poi, intendiamoci, sono
voci al ribasso e in parte camuffate: ad esempio la spesa per le armi
nucleari USA è inscritta non nel bilancio del Pentagono, ma in
quello del Dipartimento dell’energia!
Siamo
tutti prigionieri e vittime della logica che presiede al
potenziamento della tecnica
Si
obietterà: è sempre la volontà degli uomini a dirigere il
potenziamento della tecnica. Certamente, ma in che misura questa
“volontà” è a rimorchio di una dinamica storicamente inedita?
Un banale esempio per intendere il senso della questione: quando
l’innovazione incalza e rende il nostro cellulare o il nostro pc
non più aggiornato rispetto alla modalità preminente della
comunicazione, lo cambiamo. In che misura è una nostra scelta
libera, giacché se operassimo una scelta diversa saremmo tagliati
fuori dai circuiti non solo relazionali ma anche di lavoro? E di quel
potenziamento ne avevamo davvero bisogno? L’apparato tecnologico
nel quale viviamo non è più caratterizzato (come nel caso della
tecnica in accezione moderna) da strumenti isolati tra loro, e che
possono o meno essere utilizzati per libera scelta. La pervasività
tecnologica costituisce il vero ambiente entro cui operiamo, tale da
sussumere le nostre azioni. Se dai cellulari ci spostiamo ai sistemi
d’arma, ecco che se il “progresso” consente di armare aerei con
bombe nucleari a guida satellitare, allora sono necessari gli F35,
perché i Tornado non sono in grado di adattarsi a questa nuova
prospettiva. Quindi dobbiamo cambiare la flotta aerea, quindi
dobbiamo cambiare i sistemi di rilevamento militare, quindi… Ma per
quanto tempo gli F35 o chi per loro sarà “aggiornato”?
La
mia tesi è che siamo tutti prigionieri e vittime di questa logica
che non ha alcuno sbocco, se non il dissanguamento esponenziale del
bene pubblico. Se non si interrompe questa logica planetaria, di
soldi per il bene pubblico ce ne saranno sempre meno.
Se
oggi “non ci sono i soldi” per lo Stato sociale, aggiungiamo noi,
è bene sapere che ce ne saranno sempre meno anche perché la quota
dirottata sul militare, proprio per la logica di auto potenziamento
della tecnica di cui si è detto, è destinata ad aumentare.
Che
fare? Invocare la pace? È un fine nobile che non tiene conto però
che è la giustizia il valore fondante la convivenza sociale. La
filosofia ci chiama a recuperare la capacità di sdegnarci
ricordandoci, appunto, che pace non significa non-violenza, non
significa pacifismo: pace significa giustizia.
. Per la ricostruzione storica di questo passaggio
epocale e delle vicende che ne seguono, si veda la chiara e
rigorosa analisi di Manlio Dinucci all'interno del volume “Se
dici guerra….Basi militari, tecnologie e profitti”
(a cura di) Gregorio Piccin; edizioni Kappa Vu, Udine, marzo 2014.
Manlio
Dinucci è autore di numerose collane di libri di testo per le
scuole secondarie di primo e soprattutto secondo grado di geografia
generale ed economica edite da Zanichelli: segnaliamo “Il sistema
globale” e “Geolaboratorio”. È giornalista esperto di
questioni internazionali, geopolitica, armamenti e politiche
militari ed è autore di numerosi saggi. È stato uno dei precursori
della geostoria, con la pubblicazione del testo “Geostoria
dell'Africa”, 2000.
2.
Con l’espressione “guerra ambientale” s’intende
“l’intenzionale modificazione di un sistema ecologico naturale
(come il clima, i fenomeni meteorologici, gli equilibri
dell’atmosfera, della ionosfera, della magnetosfera, le
piattaforme tettoniche ecc…) allo scopo di causare distruzioni
fisiche, economiche e psicosociali nei riguardi di un determinato
obiettivo geofisico o una particolare popolazione”.
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