giovedì 5 aprile 2012

LEGA NORD, BOSSI SI E' DIMESSO

Il fondatore del movimento si fa da parte durante il consiglio federale in via Bellerio. La segretaria intercettata: "Dava soldi in nero al partito". Investigatori: "Soldi al Senatur e a Calderoli" 




Caso Bossi: cosa c’è da stupirsi?

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di Emilio Carnevali, Micromega

L'ultima volta che mi è capitato di assistere dal vivo ad un'apparizione pubblica di Bossi è stato un paio di anni fa al grande raduno di Pontida.

Il nome di Umberto Bossi è stato invocato da tutti i singoli oratori che si sono succeduti sul palco dalla mattina fino verso le 13, quando ha preso la parola lui. Con passo incerto – e appoggiandosi al figlio Renzo – si è trascinato verso il microfono e ha biascicato un discorso sconclusionato di circa una quarantina di minuti. Molto spesso si fermava guardando nel vuoto, visibilmente confuso, disorientato e incapace di riprendere il filo. A quel punto le alternative erano due: o lui stesso faceva partire un «Padania Libera!» sollecitando la risposta della folla con uno sbilenco pugno chiuso, oppure erano i militanti a riempire l'imbarazzato silenzio con qualche coro. Più raramente Bossi colmava i vuoti con scenette estemporanee, tipo il dito medio rivolto a un giornalista del Corriere della Sera che si trovava sotto il palco e cose di questo genere.

Può sembrare ingeneroso, e perfino di cattivo gusto, rievocare scene di questo genere con riferimento ad un uomo malato, tanto più nel giorno della sua resa, quando è facile accanirsi contro un potente caduto nella polvere. Forse, però, il cattivo gusto è stato molto maggiore da parte di tutti coloro che hanno allestito il teatrino attorno a lui, assecondando una recita patetica e avallando decisioni gravissime che non avevano certo bisogno di tre procure della Repubblica per venire alla luce.
E in questo gioco delle responsabilità non bisogna risparmiare nulla ai militanti della Lega, quelli che oggi sono descritti da molti come la parte sana del movimento “tradita” dal fin qui insospettabile leader. Le indiscrezioni filtrate dalle indagini descrivono un inquietante meccanismo di sottrazione delle risorse del partito a beneficio dei famigliari del capo e del suo famigerato “cerchio magico”. Ma non servivano intercettazioni per rendersi conto della sconcertante e vergognosa concezione patrimoniale e tribalistica del partito che Bossi aveva manifestato da tempo. Stiamo parlando di un leader politico che aveva reso pubblica, in modo inequivocabile, la sua volontà di preparare una vera e propria successione dinastica ai vertici della Lega. E l'erede designato era il figlio Renzo, una figura che a voler usare un eufemismo potremmo definire “pittoresca” (su di lui – del quale fece scalpore la terza bocciatura consecutiva all'esame di maturità – rimane la folgorante freddura di Spinoza.it all'indomani dell'elezione al Consiglio regionale lombardo: «Renzo Bossi ha ottenuto 12.893 voti. È rimasto nel cuore degli ex compagni di scuola»).

Si può sorridere di fronte a tutto questo, ma la dura realtà è che al Consiglio regionale Renzo ci è andato veramente. Come partecipava veramente ai più delicati vertici di maggioranza con l'allora premier Berlusconi. E come veramente in quella giornata di Pontida chiuse lui il comizio del padre dopo una sorta di passaggio di consegne informale fra le acclamazioni della folla.

Di fronte a fatti di questo genere ci si può stupire che vengano presi dei soldi dalla cassa del partito per ristrutturare un’abitazione privata? Se un partito viene utilizzato – alla luce del sole! – come insegnate di sostegno, circolo ricreativo e ufficio di collocamento per figli con evidenti deficit di apprendimento (che per altro non vengono mandati a incollare manifesti ma sono designati futuri leader), davvero i militanti “duri e puri” possono sorprendersi per quel che è successo?

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