Alla
vigilia dell’incontro con Maurizio Landini, Sergio Marchionne torna a
brandire la clava del ricatto, la sua specialità. Il general manager del
Lingotto, immagine speculare di Berlusconi traslata dalla politica ai
rapporti di produzione, manda a dire che dopo la sentenza con la quale
la Consulta dichiara incostituzionale l’articolo 39 della legge 300 e
smonta la macchinazione discriminatoria posta in atto dalla Fiat nei
confronti della Fiom, la casa torinese (la chiamiamo così solo per
abitudine) potrebbe decidere di produrre all’estero le Alfa Romeo.
Questa volta il richiamo, perentorio e di piglio ordinativo, dell’amministatore delegato della Fiat è rivolto al governo, colpevole di non essere ancora intervenuto – con decreto? – a colmare il vuoto legislativo apertosi con la sentenza della Corte, ovviamente per ribadire ciò che invece la Consulta ha messo in mora: la pretesa dell’azienda di scegliersi sindacati di comodo pronti a sottoscrivere accordi sotto dettatura aziendale, per poi revocare agibilità e diritti sindacali alle organizzazioni che a quegli accordi si oppongono, quale che sia la loro rappresentatività.
E’ difficile immaginare cosa di buono, con queste premesse, possa uscire dall’incontro “al vertice” di venerdì. Non è difficile, invece, immaginare cosa dirà il segretario della Fiom. E cioè che per i metalmeccanici della Cgil gli accordi devono essere sì esigibili, ma purchè si metta fine alle pratiche discriminatorie nei confronti dei sindacati e alle imposizioni ricattatorie nei confronti dei lavoratori. Ma, soprattutto, che valga il principio secondo cui ogni accordo, per avere efficacia, deve essere validato attraverso il referendum fra tutti i lavoratori interessati. La Fiom ha da tempo consegnato al parlamento 100mila firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare che si muove esattamente in tal senso. Ma l’attenzione che il governo delle “larghe intese” ha sino ad ora dedicato a questo tema è pari a zero. Del resto, ognuno può constatare come le relazioni industriali, dopo la cancellazione dell’articolo 18, si siano ridotte ad atti di imperio delle controparti padronali.
La legittimazione della derogabilità dei contratti di lavoro e persino delle leggi dello Stato rendono abissale l’asimmetria dei rapporti di forza fra capitale e lavoro.
Le imprese dispongono oggi di una potenza di fuoco mai vista prima e di un’ampia legislazione antilavorista, ultimamente rafforzata dal dl-lavoro in gestazione al Senato.
C’è chi, come Cisl, Uil, Ugl, si adatta, trangugia il rancio orrendo e rosicchia qualche osso buttato generosamente dai padroni nel proprio recinto. C’è chi, come la Cgil, ogni tanto si lamenta, ma poi immancabilmente si adegua. C’è chi, come la Fiom e il sindacalismo di base, prova a reagire, ma sono repliche che scontano l’isolamento politico dei lavoratori, oggi davvero soli. Eppure le lotte, anche quelle disperatamente difensive di oggi, servono. Tengono aperta una possibilità, diversa dal rinculo servile.
In ogni tempo la resistenza ha fecondato la ripresa del movimento. Che prima o poi è venuta. I padroni sanno, per istinto di classe, che malgrado tutto è difficile nascondere sotto il tappeto la cruda realtà dello sfruttamento, “mettere le brache al mondo” e, soprattutto, vincere sempre. Per questo, quando sentono di potere affondare i colpi menano mazzate da orbi. E non fanno prigionieri.
Un vecchio presidente di Confindustria, luigi Lucchini, più volte condannato dai tribunali le cui sentenze definirono le sue fabbriche “scuole di comportamento antisindacale”, sosteneva – parafrasando il generale Custer – che “il solo sindacalista buono è il sindacalista morto”. Questo motto è diventato molto di moda, a dritta e a manca, nell’Italia contemporanea. Ma devono stare ugualmente attenti, lor signori, perché il pendolo della storia non resta a lungo da una parte sola.
Questa volta il richiamo, perentorio e di piglio ordinativo, dell’amministatore delegato della Fiat è rivolto al governo, colpevole di non essere ancora intervenuto – con decreto? – a colmare il vuoto legislativo apertosi con la sentenza della Corte, ovviamente per ribadire ciò che invece la Consulta ha messo in mora: la pretesa dell’azienda di scegliersi sindacati di comodo pronti a sottoscrivere accordi sotto dettatura aziendale, per poi revocare agibilità e diritti sindacali alle organizzazioni che a quegli accordi si oppongono, quale che sia la loro rappresentatività.
E’ difficile immaginare cosa di buono, con queste premesse, possa uscire dall’incontro “al vertice” di venerdì. Non è difficile, invece, immaginare cosa dirà il segretario della Fiom. E cioè che per i metalmeccanici della Cgil gli accordi devono essere sì esigibili, ma purchè si metta fine alle pratiche discriminatorie nei confronti dei sindacati e alle imposizioni ricattatorie nei confronti dei lavoratori. Ma, soprattutto, che valga il principio secondo cui ogni accordo, per avere efficacia, deve essere validato attraverso il referendum fra tutti i lavoratori interessati. La Fiom ha da tempo consegnato al parlamento 100mila firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare che si muove esattamente in tal senso. Ma l’attenzione che il governo delle “larghe intese” ha sino ad ora dedicato a questo tema è pari a zero. Del resto, ognuno può constatare come le relazioni industriali, dopo la cancellazione dell’articolo 18, si siano ridotte ad atti di imperio delle controparti padronali.
La legittimazione della derogabilità dei contratti di lavoro e persino delle leggi dello Stato rendono abissale l’asimmetria dei rapporti di forza fra capitale e lavoro.
Le imprese dispongono oggi di una potenza di fuoco mai vista prima e di un’ampia legislazione antilavorista, ultimamente rafforzata dal dl-lavoro in gestazione al Senato.
C’è chi, come Cisl, Uil, Ugl, si adatta, trangugia il rancio orrendo e rosicchia qualche osso buttato generosamente dai padroni nel proprio recinto. C’è chi, come la Cgil, ogni tanto si lamenta, ma poi immancabilmente si adegua. C’è chi, come la Fiom e il sindacalismo di base, prova a reagire, ma sono repliche che scontano l’isolamento politico dei lavoratori, oggi davvero soli. Eppure le lotte, anche quelle disperatamente difensive di oggi, servono. Tengono aperta una possibilità, diversa dal rinculo servile.
In ogni tempo la resistenza ha fecondato la ripresa del movimento. Che prima o poi è venuta. I padroni sanno, per istinto di classe, che malgrado tutto è difficile nascondere sotto il tappeto la cruda realtà dello sfruttamento, “mettere le brache al mondo” e, soprattutto, vincere sempre. Per questo, quando sentono di potere affondare i colpi menano mazzate da orbi. E non fanno prigionieri.
Un vecchio presidente di Confindustria, luigi Lucchini, più volte condannato dai tribunali le cui sentenze definirono le sue fabbriche “scuole di comportamento antisindacale”, sosteneva – parafrasando il generale Custer – che “il solo sindacalista buono è il sindacalista morto”. Questo motto è diventato molto di moda, a dritta e a manca, nell’Italia contemporanea. Ma devono stare ugualmente attenti, lor signori, perché il pendolo della storia non resta a lungo da una parte sola.
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